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Marco Nicola Miletti
Ruolo
Professore Ordinario
Organizzazione
Università degli Studi di Foggia
Dipartimento
Dipartimento di Giurisprudenza
Area Scientifica
Area 12 - Scienze giuridiche
Settore Scientifico Disciplinare
IUS/19 - Storia del Diritto Medievale e Moderno
Settore ERC 1° livello
SH - Social sciences and humanities
Settore ERC 2° livello
SH2 Institutions, Values, Environment and Space: Political science, law, sustainability science, geography, regional studies and planning
Settore ERC 3° livello
SH2_4 Legal studies, constitutions, human rights, comparative law
Il Regolamento austriaco per la procedura penale (1788) è considerato l’esito della tradizione inquisitoria di area germanica e, nel contempo, punto d’avvio dell’autoritarismo del rito asburgico codificato. Il saggio ripercorre la storia dell’inquisitio nella cultura giuridica germanica della tarda età moderna e confronta l’opzione giuseppina, schiettamente inquisitoria, con il dibattito animato nell’illuminismo italiano maturo dal relativismo montesquieviano e dalla riflessione di Beccaria.
Il saggio esamina il contributo fornito dal "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria alla costruzione della scienza penalistica contemporanea. In particolare, il lavoro analizza l'impatto del celebre libello beccariano nella criminalistica del Settecento, evidenziandone gli elementi di originalità e di dissenso rispetto alla dottrina prevalente e all'interno della variegata galassia illuministica. Nella parte conclusiva l'articolo si sofferma sulla peculiare accezione di "scienza" che ispirò Beccaria e s'interroga sull'eredità del "Dei delitti" a 250 anni dalla pubblicazione.
Autorevole esponente della penalistica ‘liberale’, all’avvento del fascismo Luigi Lucchini si presentava quale anziano superstite d’una generazione che aveva visto nel diritto, e in particolare in quello penale, il perno d’un assetto costituzionale in grado di garantire al giovane Regno d’Italia l’equilibrio tra i poteri, il rispetto delle garanzie individuali, l’ordine pubblico. Proprio l’esigenza di sicurezza, al termine del biennio rosso, spinse Lucchini, che si era esposto sino a qualificare delitto il socialismo militante, a sostenere l’ascesa di Mussolini. La sintonia, però, fu breve: già all’inizio del 1924 il penalista si accorse che il governo brandiva con disinvoltura l’arma dei poteri straordinari ed esprimeva una «volontà piú che dittatoriale». Il dissenso esplose con il delitto Matteotti e procurò a Lucchini, oltre all’isolamento scientifico, serie incomprensioni che ebbero anche spiacevoli risvolti giudiziari. Gli ultimi sforzi del giurista patavino furono tesi a rinverdire l’eredità della penalistica ‘civile’, in contrapposizione ai criteri che guidavano l’azione codificatrice del guardasigilli Alfredo Rocco.
Il lavoro esamina i passaggi-chiave che, dal tardo medioevo sino alle codificazioni novecentesche, hanno contraddistinto la dialettica tra diritto penale sostanziale e processuale. L'analisi prende le mosse dagli spunti criminalistici presenti nella letteratura di diritto comune; spazia nella cultura giuridica francese e germanica durante la fase di costruzione dello Stato moderno e della relativa amministrazione giudiziaria; si sofferma sulle sistematiche della tarda modernità e sull'impatto didattico e scientifico dei codici. La parabola storica di lungo periodo mira a decifrare le ragioni dell'ancillarità lamentata, tra Otto e Novecento, dai cultori della processualistica, e induce a interrogarsi sull'efficacia e sui destini della separatezza disciplinare.
I due volumi del Dizionario costituiscono il primo repertorio italiano degli oltre duemila giuristi selezionati tra quelli ritenuti più rilevanti tra i secoli XII-XX. L'opera si affianca ad altre analoghe imprese prodotte in ambito internazionale e costituisce uno strumento indispensabile per la storiografia giuridica e per la storia della cultura italiana, da sempre caratterizzata da una marcata incidenza della scienza giuridica nella formazione dei ceti dirigenti e nelle dinamiche socio-istituzionali.
Il saggio esamina le alterne vicende delle circostanze attenuanti generiche nell’ordinamento penale italiano di metà Novecento. Abolite dal codice Rocco del 1930 e reintrodotte mediante decreto luogotenenziale del 1944, le ‘generiche’, oggetto di disputa già tra le scuole di fine Ottocento, si presentavano nella cruciale svolta del secondo dopoguerra (quando riapparvero anche le omologhe aggravanti) quali poli d’una rinnovata dialettica ideologica tra rigida legalità e discrezionalità giurisprudenziale. Il dibattito dottrinale vide fronteggiarsi studiosi preoccupati di generalizzate indulgenze e fautori d’un misurato recupero della individualizzazione della pena e dell’equità penale. Sul piano applicativo, ci si interrogava sugli strumenti di controllo dei poteri del giudice, con particolare riguardo all’obbligo di motivazione e al rapporto tra l’art. 62 bis e i criteri direttivi di commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p. Incerte erano anche la computabilità delle generiche ai fini del giudizio d’equivalenza e l’incidenza sui termini di prescrizione. La generazione dei penalisti formatasi nel regime repubblicano avrebbe infine promosso una lettura costituzionalmente orientata delle circostanze innominate.
Il profilo di Giuseppe Pisanelli, passato alla storia perché, come guardasigilli, si adoperò per l'approvazione dei primi codici civile e di procedura civile del Regno d'Italia, fu in realtà un insigne giurista che visse appieno la stagione del Risorgimento: come esponente del costituzionalismo moderato nel 1848, poi come esule in Francia e in Piemonte, infine come uomo politico di primo piano della Destra storica. Il saggio ne ricostruisce la biografia intellettuale, evidenziandone i contributi più rilevanti alla scienza giuridica (in materia di giuria, di processo civile, di pena di morte), alla codificazione, all'avvocatura di metà Ottocento.
Il saggio propone una riflessione sulla fortuna del Digesto nella cultura giuridica italiana tra Cinque e Seicento. Prendendo le mosse dal serrato dibattito critico-filologico avviato dagli umanisti, il lavoro si sofferma tanto sui fermenti e sulle resistenze che caratterizzarono gli ambienti universitari, sia sulla letteratura giurisprudenziale, che continuò ad avvalersi del corredo romanistico non solo come potente strumento di coesione ideologica ma anche a fini applicativi. All'interno dell'arco cronologico preso in considerazione, l'analisi tiene conto anche delle voci critiche che seppero cogliere - da una prospettiva 'culta' - gli anacronismi e gli interessi cetuali insiti nella venerazione acritica del Digesto.
Il saggio passa in rassegna le opinioni favorevoli e contrarie - entro una complessiva cornice storico-ideologica - all’introduzione di una “giuria”, sul modello degli ordinamenti anglosassoni, in particolare nella penalistica napoletana postunitaria. L’attenzione si concentrava soprattutto sulle modalità di composizione dell’elemento popolare della corte d’assise: le proposte provenienti dai penalisti meridionali suggerivano di ridimensionare l’incidenza del censo a vantaggio delle qualità intellettuali dei giurati. Altro punto dolente consisteva nella difficoltà di discernere – come invece pretendevano il codice di rito e l'ordinamento giudiziario – tra questioni di fatto e di diritto. In linea di massima, i fautori del giurí subivano il fascino del modello britannico, col tradizionale anelito di libertà e in grado di esprimere appieno il sentimento ‘popolare’ di giustizia. La conclusione di queste complesse e variegate discussioni si ebbe agli inizi del ‘900 con il codice di procedura penale del 1913, ove si preferì un’originale proposta di c.d. scabinato: ossia un sistema misto, basato sulla cooperazione tra giudici del fatto e giudici del diritto, che sul lungo periodo si sarebbe rivelato capace «di rimarginare antiche ferite e di indebolire le resistenze della giustizia italiana verso la compartecipazione popolare».
Il saggio esamina, in sintesi, i tratti essenziali della cultura processual-penalistica dell'Italia unita attraverso le contraddizioni dello Stato liberale, nel quale la tutela delle garanzie statutarie collideva con la crescente esigenza di ordine. In questo contesto dinamico, attraversato da crescenti tensioni sociali, le grandi 'scuole' penalistiche s'interrogarono sull'efficacia dei meccanismi processuali. L'appassionato dibattito sfociò in un codice di rito - quello del 1913 - deludente rispetto alle attese ma sintomo di pulsioni autoritarie perennemente latenti nella scienza italiana del processo penale.
Dopo un cenno alla funzione 'politica' delle pratiche nella letteratura giuridica moderna, il saggio offre, attraverso l'esame delle due principali opere di Pietro Follerio (Praxis criminalis dialogica e Marcellina), una sintetica ricostruzione dei lineamenti del processo penale, laico ed ecclesiastico, nel Mezzogiorno spagnolo del secolo XVI. La peculiare fisionomia di Follerio, la sua provenienza ‘periferica’, la sensibilità umanistica consentono di aprire squarci significativi (in tema, ad esempio, di deontologia del magistrato e di rapporti tra giurisdizioni) sulle trasformazioni della giustizia criminale all’alba dello Stato moderno
Il saggio ripercorre la fortuna del “Dei delitti e delle pene” nella penalistica italiana del XX secolo, soffermandosi in particolare sull'eredità processualistica lasciata, in Italia, dal testo beccariano. Da tale prospettiva la lezione dell'illuminista lombardo appare realmente metabolizzata soltanto a partire dalle celebrazioni del bicentenario, ossia in pieno clima repubblicano, principalmente per merito della riscoperta in chiave 'civile' ad opera di Piero Calamandrei. Prima di allora, il pamphlet era stato accantonato dall’indirizzo tecnico giuridico; il fascismo, che pure lo aveva celebrato come gloria nazionale, lo aveva ampiamente tradito nei presupposti ideologici e nella riforma dei codici. Nella parte conclusiva il lavoro traccia un bilancio dell’influenza di Beccaria sulla cultura processual-penalistica dell’Italia di fine Novecento, con riguardo sia ad alcuni istituti del rito sia all'istanza 'politica' del giusto processo.
La vicenda dell'omicidio 'politico' di Giuseppe Di Vagno (1921) è esaminata da una duplice prospettiva, rilevante per la cultura giuridica italiana del Novecento: la formazione del giovane parlamentare pugliese, con particolare riguardo ai Maestri del socialismo giuridico in cattedra presso la Sapienza di Roma (Cesare Vivante, Enrico Ferri); l'esito del duplice processo a carico dei presunti omicidi, celebrato all'indomani del delitto e poi nel secondo dopoguerra sotto l'impero di codici penali differenti e con riflessi significativi sulla storia della giustizia penale nell'Italia contemporanea.
Il saggio fornisce alcuni essenziali dati bibliografici e descrive sinteticamente il contenuto dello "Speculum aureum", opera del giurista meridionale Roberto Maranta pubblicata (postuma) nella prima metà del Cinquecento. Il testo, una delle prime 'pratiche' civili degl'inizi dell'età moderna, costituì un punto di riferimento per i giuristi di cattedra e di foro di tutta Europa in quanto tentava una prima sistemazione scientifica del diritto processuale nella fase in cui le coordinate del diritto romano-comune venivano investite dalla statualizzazione della giustizia e delle relative regole procedurali. La fortuna dello "Speculum" va attribuita non solo all'impianto culturale di ampio respiro, non privo di influenze umanistiche, ma anche alla capacità di trovare un punto d'equilibrio tra regole sapienziali e prassi giurisprudenziale; tra norme processuali comuni e riti 'speciali'.
La figura del giudice istruttore può assimilarsi ad alcune magistrature d'antico regime e del primo periodo rivoluzionario. Essa, tuttavia, si staglia con contorni netti nella prima codificazione francese della procedura penale. Sin dalle origini la giurisdizione istruttoria determina un campo di tensione con la magistratura inquirente: la sovrapposizione di competenze produce attriti e disfunzioni di lunga durata nell'amministrazione della giustizia penale. Il saggio ricostruisce le radici di questa polarità esaminando il "code" napoleonico del 1808 e l'abbondante letteratura esegetica che lo accompagnò.
Il saggio ricostruisce l'esperienza acquisita nella direzione del Dizionario biografico dei giuristi italiani, rilevando le peculiarità nella redazione delle singole voci (a seconda del contesto storico di riferimento) e ponendo alcuni interrogativi circa la coerenza del genere biografico con le discipline giuridiche.
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