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Gianfranco Salvatore
Ruolo
Professore Associato
Organizzazione
Università del Salento
Dipartimento
Dipartimento di Beni Culturali
Area Scientifica
AREA 10 - Scienze dell'antichita,filologico-letterarie e storico-artistiche
Settore Scientifico Disciplinare
L-ART/08 - Etnomusicologia
Settore ERC 1° livello
SH - Social sciences and humanities
Settore ERC 2° livello
SH5 Cultures and Cultural Production: Literature, philology, cultural studies, anthropology, study of the arts, philosophy
Settore ERC 3° livello
SH5_5 Music and musicology; history of music
Nello studio della Popular Music si pone il problema di un corretto utilizzo delle testimonianze raccolte in ambienti amatoriali al di fuori di ogni metodo scientifico. Veri e propri giacimenti di “storia orale”, quali sono le interviste somministrate ai musicisti nella pubblicistica ordinaria, appaiono spesso inutilizzabili per ragioni di fallacia metodologica, costituendo un corpus gravato da contraddizioni interne, scarse verifiche intertestuali e contestuali, fraintendimenti ed errori. Il saggio considera le tipologie più frequenti di distorsione e corruzione dei dati, e propone un metodo utile sia al filtraggio delle informazioni raccolte in maniera acritica, sia alla loro revisione. Il metodo viene poi applicato a un’opera di Lucio Battisti del 1974, “Anima Latina”, che ancora oggi risulta controversa per la scarsa coerenza delle testimonianze disponibili circa la sua genesi creativa e la sua realizzazione artistica. La ricerca storica si combina qui con quella musicologica nella ricostruzione di uno degli episodi più sperimentali della storia della canzone italiana.
La figura eclettica di Boris Vian viene rievocata in un libro dedicato agli ingegneri che furono anche scrittori (Dostoevskij, Gadda, Musil, Zamjatin) o musicisti (Xenakis). Vian, di professione ingegnere meccanico, fu scrittore prolifico impegnato in una varietà di generi letterari, drammaturgici, saggistici, oltre che promotore del fumetto e del giallo, della fantascienza e del cinema popolare come forme d’arte a pieno titolo; e fu cornettista jazz, autore di canzoni, operatore culturale a tutto tondo nel campo musicale. Il saggio riconduce interpretativamente le forme del suo eclettismo all’adesione al movimento patafisico, fondato da Alfred Jarry e animato, con Vian, da Raymond Queneau: movimento che si appellava a una “scienza delle soluzioni immaginarie” e che ammetteva quale unica ideologia quella del paradosso. Tale adesione rispecchiava perfettamente la tendenza dell’ingegnere Vian a progettare le sue creature - dalle opere d’arte ai mobili di casa - come macchine inesorabilmente proiettate verso un’ideale quarta dimensione, incuranti delle relazioni di causa ed effetto, irrisorie di ogni consequenzialità.
Una puntuale analisi diacronica dell’iconografia vascolare greca del tamburo a cornice, che ha inizio dal secondo quarto (e non dalla metà, come spesso sostenuto) del V secolo a.C., consente di rilevare una doppia evoluzione dello strumento, musicale (morfologia, organologia, prassi esecutiva) e religiosa (riti pubblici e privati, cerimonie catartiche o misteriche). Tale percorso evolutivo può essere distinto in quattro fasi, più una intermedia, dove l’analisi delle occorrenze figurative suggerisce che gli strumenti fossero rappresentati dal vero, con chiara consapevolezza sia della morfologia (che varia spesso nelle prime fasi), sia di varie tecniche esecutive, come riflesso dell’osservazione di modelli ancora d’importazione e di esecutori provenienti da tradizioni asianiche diverse. Lo studio mostra inoltre la coincidenza di fonti scritte e iconografiche, sia riguardo alla cronologia storico-religiosa dei culti di Cibele e di Dioniso, sia in merito alle descrizioni e raffigurazioni delle performance timpanistiche.
“Revolver”, l’album dei Beatles del 1966, non è solo, a detta di molti, il loro capolavoro assieme a “Sgt. Pepper”. È il risultato di una serie di grandi trasformazioni che avvengono, in Gran Bretagna e in tutto il mondo occidentale, nella cultura, nell’arte, nei media, nei costumi, e in generale nella creatività e nel modo di esprimerla e distribuirla iin Europa e in America. A sua volta, i Beatles e i musicisti loro contemporanei, inglesi e americani, si fanno carico di redistribuire - attraverso la loro musica, ma anche tramite le loro dichiarazioni pubbliche e i loro stili di vita - questo complesso intreccio che mette improvvisamente a contatto le arti moderne e contemporanee con i gusti, le opinioni e le conoscenze “a mosaico” della gente comune, e con quei movimenti che saranno definiti “controculturali” o “underground”. Generando così una nuova consapevolezza, e un nuovo esistenzialismo, dove le espressioni artistiche, a partire dalla musica, penetrano profondamente nella nostra vita, e la nostra vita in esse. Nasce la “cultura pop”. La prima forma comunicativa a farne le spese sarà quella della canzone tradizionale, che non sarà più quella di prima: nuovi strumenti destinati alla creazione, alla registrazione, alla diffusione della musica pop (che si trasforma in rock), uniti a una nuova creatività diffusa, faranno nascere quella che è oggi la canzone moderna, “popolare” sì, ma spesso realizzata tramite tecniche e saperi ripresi dal mondo delle arti contemporanee, e dalle sue avanguardie. Le durate si allungano, i testi si allontanano dal sentimentalismo e diventano realistici, narrativi, filosofici, la musica e i suoni si fanno più ambiziosi, mentre il disco assurge a oggetto estetico, e la grafica, il teatro, l’audiovisivo irrompono nel discorso musicale. Il libro indaga a fondo le coordinate culturali di questa metamorfosi: il rapporto dei Beatles e dei loro contemporanei con le avanguardie e le controculture, il ruolo dei mass-media e il nuovo modo di usarli per incrociare espressioni artistiche cólte e popolari, la relazione di reciproca influenza culturale tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il modo in cui quest’ultima seppe appropriarsi della musica afroamericana trasformandola e riformulandola nel pop-rock e nella psichedelia, e, infine, la “terza sponda” delle influenze estremo-orientali nella filosofia, nell’arte, nella musica, nella spiritualità e in una dilagante vena “orientalista” vissuta dall’Occidente nel corso di quei ricchissimi anni Sessanta del Ventesimo secolo.
The iconic quality of ‘rock image’ is often only a byproduct of the aesthetics of the rock show conceived as a theatrical performance. This tendency of rock - and of popular music more generally - toward drama represents a historic value, even if its present reliance on video as a promotional means, and on teen-oriented television series as a shortcut to fame, has partially weakened its attitude as a ‘live’ experience. My argument is focused primarily on the concept of necessity. It appears that a certain amount of extra-musical messages is organic and necessary in rock music. This necessity has often been brilliantly integrated in the development of rock performance. Each theatrical feature exploited by rock - the frontman as main actor (and sometime director) of the show, his prossemics, his props, and eventually costumes, scenographies, and various kinds of puppets and machinery in motion - may be felt as ‘necessary’ for the narrative ingrained in the lyrics, in the first place. Furthermore, its non-musical and non-verbal messages, as well as stylistic features, are committed to drammaturgy as they support, enhance or expand the musical message itself. The sense of necessity can act by ways of affinity, complementarity, or even contrast to the musical presentation, but in any case full expression is achieved through visual as much as theatrical means. Action is meaningful -- visualism is only one side of the coin, the other one being dynamic and kinetic narration. In its second section, the paper proposes a preliminary catalogue of visual and theatrical themes that are organic to rock tradition. Three case studies - Mick Jagger, Ian Anderson, and Pink Floyd - will be discussed in the third section as examples of critic visualizations of typical rock mythologies: sexuality, juvenilism, and alienation.
Tre saggi arrivarono da Oriente per adorare il bimbo divino, futuro re dei Giudei: questo è tutto ciò che ci dice il Vangelo di Matteo (2, 1-12) sui Magi. Nuovi dati saranno gradualmente aggiunti al canone dalla tradizione, a cominciare dai primi secoli dell’era cristiana. E solo nel XIV secolo Giovanni da Hildesheim attribuì a uno dei Magi la qualifica di “Etiope”: proveniente cioè - nella geografia dell’epoca - dall’Africa subsahariana intesa in senso generico. A sua volta l’iconografia, per distinguere i paesi e popoli di provenienza dei tre personaggi, coniò tre vessilli. Nell’elaborazione di Hans Memling, non priva di precedenti, lo stendardo relativo al re africano è l’unico a non essere espresso da un simbolismo elementare, rappresentando invece un personaggio di colore a figura intera, caratterizzato da un dinamismo entusiastico e vivace. L’icona sintetizza la visione occidentale della cinetica africana: definisce cioè un “tipo” nazionale ed etnico andando oltre la semplice fisiognomica, forma stilizzata, tra altre, di quella che era la percezione rinascimentale degli stranieri; e trova spunto nel luogo comune che gli africani non pensino ad altro che a danzare. Quest’idea di esprimersi e “vivere” danzando diventa paradigma figurato di un’attitudine eso- tica e pittoresca di individui e popoli profondamente “diversi” da noi. Nella storia della cultura il paradigma si trova ben rappresentato e sviluppato fra Medioevo e Rinascimento: nell’iconografia dei blasoni aristocratici, ma anche nelle prime cronache etnografiche, negli spettacoli delle corti europee, nelle parodie e nell’iconografia della danza moresca.
Il repertorio delle moresche, composizioni polifoniche del tardo XVI secolo, consiste in dieci testi musicati da vari compositori dell’epoca, fra cui Orlando di Lasso. Questi testi sono parodie di mattinate, serenate diurne, eseguite da personaggi africani presenti a Napoli come schiavi o liberti. Lo studio del linguaggio dei testi rivela che essi sono scritti in un pidgin afro-napoletano che mescola espressioni del dialetto locale con il kanuri, la lingua nilo-sahariana parlata nell’impero del Bornu, da cui aveva origine il traffico schiavistico verso il Mediterraneo e in particolare verso la Sicilia e l’Italia meridionale. Dai dieci testi, tramite l’analisi della loro intertestualità e dei contesti storici e sociali di riferimento, si possono ricavare informazioni inedite sulla vita sociale, le forme comunicative e le espressioni identitarie in uso tra le varie etnie degli schiavi africani a Napoli durante il Rinascimento.
A partire dalle villanelle e dalla loro diffusione nella Napoli del Cinquecento si puo` ricostruire la concezione rinascimentale del “fare musica” utilizzando o formando una melodia cantabile e realizzandone l’accompagnamento. L’analisi dei repertori popolareg- gianti italiani, delle loro prassi esecutive, e del diverso modo in cui tali repertori erano valutati dai teorici e dagli utenti, relativizza l’efficacia di antitesi convenzionali quali “scritto vs orale”, “alto vs basso”, “d’e ́lite vs di massa”, “egemonico vs subalterno”. E identifica una produzione urbana ispirata da temi, motivi e tecniche rurali, riadattate ai contesti cittadini. Cio` aiuta a chiarire la nozione di “musica popolare urbana” e a con- frontarla con il pop contemporaneo. I risultati del confronto suggeriscono la costanza di alcuni fattori determinanti: (1) la struttura interclassista delle diffusione del repertorio “popolare”; (2) la domanda e l’offerta di continue novita`; (3) il modello della melodia accompagnata dove l’accompagnamento tende a diventare sempre piu` di tipo accordale, contribuendo ad affermare gli strumenti a corda e la tipologia del “cantore e sonatore” che si accompagna da se ́; (4) la diffusione di tecniche formulari per la realizzazione delle melodie e degli accompagnamenti; (5) la liberta` di approccio all’esecuzione del reper- torio. Nel suo lineamento storico, questo modo di realizzare e diffondere una canzone rappresenta un’arte nazionale italiana che dal Rinascimento a oggi si e` sedimentata nei costumi popolari urbani, proponendo modelli ancora riscontrabili nel pop contemporaneo.
La pregnanza di motivazioni di tipo simbolico (e perfino religioso) non costituisce una rarità nella storia delle tecnologie musicali europee basate sull’elettricità o l’elettronica, che ha origine nelle prime invenzioni settecentesche di tastiere elettrificate (talvolta anche in grado di produrre colori in relazione alle note musicali) costruite da gesuiti, teologi, teorici della magia naturale, ispirandosi dichiaratamente ora all’estasi dionisiaca, ora ai fenomeni sinestesici. Questa adesione fra ricerca tecnologica e produzione simbolica è stata poi in modo diverso riproposta nel corso del Novecento da Futurismo, Bauhaus, Espressionismo astratto; e anche la ricerca di suoni inauditi costituisce un’utopia tipicamente europea, rilanciata nell’ambito classico-contemporaneo dai principali padri della musica elettronica (francesi, tedeschi, ungheresi, greci, italiani). Entrambe le tendenze sono state assimilate nel retaggio culturale e nella creatività di alcuni maestri del jazz europeo (alcuni dei quali operanti negli Stati Uniti), esprimendo una costante tendenza a concettualizzare l’espressione musicale attraverso idee filosofiche e astratte, da una parte, icastiche e figurative dall’altra. Il saggio analizza, anche con l’ausilio di dichiarazioni personali offerte all’autore dagli artisti, alcune opere emblematiche di grandi musicisti che hanno sviluppato nel jazz quest’aspetto dell’identità profonda della tradizione europea, che varie volte si è espresso, nel corso della storia, rivelando una mentalità utopistica e visionaria.
La carriera musicale di Vittorio Nocenzi - musicista e compositore di formazione classica affermatosi come antesignano e protagonista italiano del “rock progressivo”, prima con l’ensemble Banco del Mutuo Soccorso e poi come pianista solista - viene ricostruita a partire da testimonianze, partiture, e dichiarazioni dello stesso musicista. La periodizzazione del lavoro di Nocenzi, la descrizione del suo stile compositivo e la definizione della sua Weltanschauung sono affrontate dall’autore enunciando temi, approcci storici e teorici, temi filosofici e sociologici, che vengono proposti allo stesso musicista. L’autore del libro sottolinea il valore dato alla tradizione musicale, sia popolare che cólta, nella formazione dell’artista; discute il rapporto storico della musica eurocolta con le melodie folkloriche, nel controverso confronto fra modalità e tonalità, e fra il rock con la tradizione classica; disegna il ruolo pionieristico dei Beatles in queste mediazioni culturali e nell’emancipazione della popular music come musica d’arte; ricorda la vena fortemente ideologica del panorama musicale nel quale Nocenzi espresse le sue prime esperienze creative, individuando il delicato rapporto contemporaneo fra arte e mercato come evoluzione del concetto storico di committenza; pone il problema dell’impiego delle tecnologie musicali fra libera creatività e scorciatoie semplificative. E sollecita il pensiero dell’artista verso la riflessione teorica ed estetica: sulla necessità di ridefinire concetti quali “creatività” e “complessità”, sulla funzione del “programma” o dell’alea nell’ispirazione, sulla dicotomia composizione/improvvisazione, sulla diffusa rivalutazione dell’espressione melodica dopo le avanguardie del Novecento. Ispirandosi all’Intervista sulla musica di Rossana Dalmonte (con Luciano Berio) e ad analoghe opere di storia e critica musicale basate sul confronto diretto con l’artista, l’autore si posiziona in un centro ideale fra il mondo creativo del musicista e quello della sua ricezione facendo riferimento anche alle partiture riprodotte nel volume e a una selezione di testimonianze sia di altri artisti che di ascoltatori comuni, in un ritratto musicologico a tutto tondo.
The voice, especially the singing voice, is a vehicle of a complex variety of messages. Not all these messages are related to the languages itself, many of them relay a more articulated heritage. In particular, vocal styles developed within the boundaries of African Diasporas go back to the African origin and African vocal traditions. So that, the singing voice could be considered as the place where the connection still exists and is operating (Zumthor). Nevertheless, the connection – as well as the vocal styles themselves – is evolving by passing through new contexts, new social relationships, new forms of religion, new technologies, etc. The effort of vocal performers and composers is both to overcome voice's limits and to go back to ancient vocal techniques. Research will focus on how much performances of contemporary African-American vocal styles – from different musical genres – influence (and express) the reshaping of a new cultural identity. The project will deal at the same time with musicians of a more recent African Diaspora in Europe, where new cultural identities are evolving. Archives will be investigated in order to trace the history of the development of African related vocal styles in the African-American culture. However, a fundamental source will be interviewing professional musicians. During the return phase, professional musicians with African origins who are operating in Italy nowadays will be interviewed. Besides, the contemporary philosophical approach (such as the pioneer study of Adriana Cavarero on social and political function of the voices) will be used, as well as linguistic analyses, in order to enlighten the role of vocal styles in negotiating cultural identities. In addition to academic outcomes, research will implement a map of the performed vocal styles to be showed in a specific website. Furthermore, a documentary, focusing on African-American and African-European vocal styles, will be released.
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