Effettua una ricerca
Giorgio Rizzo
Ruolo
Professore Associato
Organizzazione
Università del Salento
Dipartimento
Dipartimento di Studi Umanistici
Area Scientifica
Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Settore Scientifico Disciplinare
M-FIL/01 - Filosofia Teoretica
Settore ERC 1° livello
SH - Social sciences and humanities
Settore ERC 2° livello
SH4 The Human Mind and Its Complexity: Cognitive science, psychology, linguistics, philosophy of mind
Settore ERC 3° livello
SH4_12 Philosophy of mind, philosophy of language
Si precisano le tracce che nel pensiero di Hannah Arendt rendono intelligibile una possibile conciliazione tra le istanze del pensiero e quelle della realtà, facendo a meno, di fronte all'assurdità del male, di definizioni o formule esaustive.
Un approccio naturalistico all'esperienza pone grossi problemi concettuali. La fenomenologia ci offre una serie di "strumenti metodologici" (intenzionalità, Leib, empatia, intersoggettività), in virtù di una indagine genetico-trascendentale, in grado di evitare che la filosofia della natura si traduca in una metafisica dogmatica.
A partire da "Ideen II", Husserl sembra mitigare quel forte dualismo metafisico che improntava il suo percorso filosofico iniziale. Così "causalità" non è più intesa come opposta a "motivazione" alla stessa stregua di come "interno" è opposto ad "esterno". Si fa strada invece l'idea che la prima nozione sia il risultato di un "raffinamento concettuale" della seconda. In questo senso, nel saggio è proposta una indagine genetica di quegli "Erlebnisse" in cui si costituisce la nozione originaria di motivazione.
James Clerk Maxwell rivoluziona il modo in cui i fisici osservano il mondo. Lo scopo del saggio è quello di dimostrare che lo scienziato scozzese arriva alla formulazione delle sue famose quattro equazioni facendo a meno di analogie mutuate da modelli meccanici. Queste infatti si apprezzano soprattutto per il loro carattere di universalità, astrattezza, coerenza e completezza.
Tra le priorità di Wittgenstein non vi è soltanto quella di chiarire i nostri concetti filosofici, ma anche, come in una seduta psicoanalitica, quella di smascherare gli errori categorali sottesi ad un uso improprio degli stessi:imparare ad usare nozioni come “pensare”, “immaginare”, “ricordare”, “sentire” richiede un investimento pratico piuttosto che teoretico. L’idea che la filosofia si riduca a una sorta di sapere parassitario evolutosi intorno al senso comune ignora il fatto che, proprio sull’esempio di Wittgenstein, quest’ultimo spesso spaccia per verità scientifi che ciò che, sotto la lente di ingrandimento dell’analisi filosofica, risulta essere solo una modifi cazione del paradigma linguistico in cui tali presunte verità sono presentate: il mondo dell’inconscio “scoperto” da Freud è un’esempio illuminante dell’abbagliamento prodotto da tale deragliamento ideologico. Filosofare dunque somiglia più all’affinamento di un particolare modo di vedere le cose che ad una investigazione che pretenda di carpirne la struttura segreta: è un’attività di superficie piuttosto che di scavo: se sono in un bosco alla ricerca di funghi, non mi interessa conoscerne la struttura biologica, ma invece riconoscerne la morfologia-colore, forma, odore- al fine, per esempio, di poterli impiegare per uso alimentare. A coloro che dichiarano l’impossibilità logica da parte di un soggetto di poter constatare l’oggetto privato posseduto da un altro ( pensiero, immagine, sensazione), si può rispondere che, anche ammessa quest’impossibilità, non si vede perchè se un soggetto ha una scatola con uno scarafaggio dentro, per rimanere ancorati al famoso esempio di Wittgenstein, non possa istituire una serie di comparazioni con scarafaggi pubblici, collocati all’esterno della scatola. L’indispensabilità di un quadro pubblico di riferimento non implica necessariamente che gli oggetti privati debbano essere pubblici. L’unica clausola debole che deve poter esser presupposta ad ogni considerazione sulla legittimità di un linguaggio o di un oggetto privato è che di questi si possa parlare solo dopo che sia stato istituito, precedentemente, un gioco linguistico radicato in un contesto pubblico. Da questo punto di vista, allora, per quanto possibile, un linguaggio privato risulterebbe parassitario o secondario rispetto a un linguaggio pubblico; questi giochi linguistici secondari sono ampiamente previsti ed ammessi da Wittgenstein, per esempio, in alcune sezioni di "Zettel"
Nell'articolo si mette in evidenza come i giudizi politici di Heidegger, sull'ebraismo, sul comunismo e sul capitalismo, siano così lontani dal senso comune da apparire se non "ridicoli" o "patologici", almeno grotteschi.
Le sensazioni divengono manifestazioni di qualcosa quando acquistano un carattere intenzionale e sono inserite in una struttura di rimandi che sono dapprima temporali e poi associativi e cinestetici. Grazie alla riduzione fenomenologica si è in grado di dar luogo ad una serie di analisi costitutive, della cosa e dello spazio, avviando così la fondazione della ragione oggettiva: questa si mostra nei nessi dell’esperienza che non è un caos sensoriale, bensì una struttura governata da regole che possono essere portate alla luce. Seguendo le lezioni di Husserl sulla cosa e sullo spazio si comprenderà quanto poco attraente e plausibile sia quella tesi secondo cui il reale può essere dedotto logicamente dalla soggettività e quanto invece molto più convincente sia l’idea che, se ci si attiene solo a ciò che appare, si può rendere conto, mediante un’analisi fenomenologico-trascendentale, della ragionevolezza della nostra credenza nella realtà.
La ricerca a più voci presente in questo volume muove dalla prospettiva fenomenologica e seguendo il filo rosso dell'intersoggettività si propone di far emergere il contributo dell'analisi fenomenologica sul terreno della costituzione del Noi e delle forme che il Noi assume nelle molteplici declinazioni della convivenza.
Secondo il filosofo americano Wilfrid Sellars, vi sono due modi per spiegare fatti della forma "x appare rosso": l‟introduzione delle impressioni e delle esperienze immediate come entità teoriche; la scoperta, una volta che alcune situazioni siano state indagate accuratamente, che queste presentino, come loro componenti, impressioni o esperienze immediate. Se la prima alternativa può sembrare paradossale, la seconda invece, nella misura in cui introduce il Mito del Dato, l‟idea cioè che il nostro sapere si fondi su esperienze immediate non inferenziali, può essere ritenuta insoddisfacente. Come possono infatti essere descritte queste esperienze se non facendo uso di termini quali “verde”, “quadrato” il cui ambito di impiego è riservato agli oggetti fisici? Sembra quasi che l‟unica caratterizzazione possibile delle impressioni sia quella che si configura come una descrizione definita, ovvero «come il tipo di entità» comune ad esperienze quali: - vedere che un certo oggetto laggiù è verde; - l‟apparire a qualcuno che un certo oggetto laggiù è verde; - l‟apparire a qualcuno come se vi fosse un certo oggetto verde laggiù. Tutto ciò tuttavia ci porta a considerare il linguaggio delle impressioni come una sorta di «espediente notazionale» (notational convenience), un vero e proprio codice. Sellars ci dice come affrontare queste problematiche dal punto di vista metodologico: abbandonando l'idea che anche i concetti più semplici (quelli, per esempio, di colore) siano in qualche senso innati. Ogni concetto infatti è «il frutto di un lungo processo di risposte pubblicamente rinforzate a oggetti pubblici (incluse le esecuzioni verbali) in situazioni pubbliche». Da questo punto di vista il discorso sulle impressioni o sensazioni appare alquanto più problematico, visto che è quasi paradossale venire a conoscenza di cose o eventi che non sono pubblici. A ciò si aggiunga il fatto che la relazione tra concetto e cosa particolare osservata non è di dipendenza funzionale del primo rispetto alla seconda. Infatti, appare chiaro che non possiamo spiegare come si giunga a possedere il concetto di una certa cosa facendo riferimento al fatto che una cosa di quel genere è stata osservata, perché avere la possibilità di osservare un certo genere di cosa è già possedere il concetto di quel genere di cosa.
L'articolo mette in evidenza il modo originale in cui la Arendt affida alla facoltà del giudizio, effimera e contingente per sua natura, la fondazione, non logica, della libertà.
Se la nostra capacità di comprendere gli altri, oltre noi stessi, fosse fondata solo su un atteggiamento personalistico, allora non ci si sognerebbe mai di dire, se non in circostanze eccezionali, che, per esempio, “si è determinati (o, ancora peggio: causati) ad agire”; se, invece, si indulgesse verso un’attitudine o modo di vedere naturalistico, allora questo enunciato non suonerebbe “strano”. Nelle nozioni dunque di “motivazione”, “azione”, “causa”, oggetto d’analisi in questo saggio, albergano difficoltà teoretiche tanto più rilevanti quanto più si cerca di “far quadrare” ambiti d’indagine e regioni ontologiche differenti. Con quale prospettiva poi? Di armonizzarli mediante implausibili “riduzioni”? Appellan- dosi ai dispositivi tecnico-concettuali offertici dalle varie teorie della soprav- venienza oggi in voga? Di fissarli in inconciliabili opposti? Oppure, magari, di leggerli alla luce di una storia genetica che, al tempo stesso, li leghi (ontologica- mente) e li separi (epistemologicamente)? Il seguito di questo saggio cercherà di dare una risposta, anche se non risolutiva, alle domande di cui sopra, mantenen- dosi in una prospettiva che oggi si definirebbe “inflazionistica”, ovvero aperta al contributo che l’analisi di ogni livello di organizzazione del reale può apportare alla “comprensione” della complessità strutturale dello stesso .
This book discusses different topics from phenomenology to philosophy of language; the topics discussed belong to different areas of philosophy even if it is possible to find a fil rouge that enables the reader to achieve a transversal point of view. If we consider the idea of a basic antireductionism common to the topics of this book,we can see that a diversity of themes with wich we are concerned disappears in favor of a certain homogeneity of sense which pervades the arguments treated.
Non si può nascondere la difficoltà non solo di mettere in relazione due termini apparentemente antitetici come “mondo della vita” (Lebenswelt) e “arte del vivere” (Lebenskunst), ma anche di poter trattare fenomenologicamente una nozione come quella di Lebenskunst che non trova alcun riscontro all'interno della vastissima produzione di Edmund Husserl. Il tentativo che qui si intraprende è allora quello non solo di portare a maggiore chiarezza il plesso di significati che possono essere ascritti alle nozioni qui oggetto dell'indagine fenomenologica, ma, ancora più difficilmente, di verificare il grado di complementarietà dialettica, di intreccio, che le due nozioni, "Lebenswelt" e "Lebenskunst", potrebbero presentare se alcune premesse forti del metodo fenomenologico fossero non tanto mitigate o filosoficamente "auf-gehoben", quanto invece considerate nel loro possibile intreccio con posizioni complementari. Un modo produttivo di procedere è quindi quello, dopo essersi soffermati riflessivamente e singolarmente su ciascuno dei due termini, di tentare una declinazione ed articolazione degli stessi tale da far emergere nessi semantici in grado di far dialogare ed eventualmente convergere mondo della vita ed arte del vivere. Le analisi di questo contributo avranno soprattutto un valore teoretico nella misura in cui si tenterà di mostrare come la difficoltà del metodo fenomenologico di coniugare mondo della vita e arte del vivere, insomma arte e vita, sia dovuta alla polarizzazione e radicalizzazione di nozioni complementari come immediatezza/mediatezza, passività/spontaneità, teoria/prassi, evidenza/sedimentazione, faktum/eidos, autentico/inautentico, Kultur/Zivilisation. Si può dire, dunque, in anticipo, che il rapporto, qui indagato,tra Lebenswelt e Lebenskunst è solo un pretesto per mostrare come il pensiero husserliano si presenti forse inadatto a trattare la dialettica tra arte e vita in virtù di un eccesso fondazionalistico e teoreticistico.
If we want to investigate, from a phenomenological point of view, the notion of space, we cannot start from nowhere. For our “interest” in space is, as a matter of fact, guided by the exhibition of that lowest layer of space on which other kinds of spaces are grounded. This means also that, when our theoretical or practical motivations change, others features of space come into play. For this reason, it has a sense to speak of space only in a plural form: “spaces”. If our concern with space is purely descriptive, we cannot avoid to think that “space” and “thinghood”, as Husserl remarks in his Lectures of 1907, are essentially linked. Such essential finding, however, holds only if the space we investigate is perceptually given. Other features of our surrounding world come into play when we adopt, for example, an “existential” turn of investigation. In this case, space is not more given as a system of coordinates- filled by things- relative to our lived body. Much more, it is given as a “region”, even an “atmosphere”, in relation to which we can feel at home or in a condition of uncomfortableness.
My aim is to stress the importance of Husserl's ambitious project of founding logic in the prelogical or prepredicative sphere of consciousness; a project which, in some ways, continues the effort raised formerly by the same to criticise the incomplete state of sciences, logics and matemathics included, that would lack of clarity and rationality, even if they have succeded in mastering over nature. In works like Formal and Transcendental Logic or Experience and Judgment, Husserl defends the point of view according to which logical operators (negation at first) have their roots in the prepredicative experience;disregarding this origin, they would turn into objectivations ('Sustruktionen'in the Crisis turn of phrase) which cover the latent function of transcendental subjectivity. By facing this kind of problems, we have to distinguish between modalizations (prepredicative level) and modalities (categorial level), and to remark that every logical construction, such as e. g. semantics of possible worlds, while having its foundation on the prepredicative level, is the result of a process of abstraction which takes it away from the world of life. The following short remarks will show also the necessity of a critical reflection on the notion of 'possibility', pointing to its rooting in the precategorial life of the Ego. The significance of this notion, in Husserl's point of view, is practical, because of its being tied to the notion of 'I can (Ich kann) as in sentences like 'I can move my hands'; semantics of possible world then would abstract from this practical move;moreover, it would also neglect the important fact that notions like possibility, imagination, variation, possible world, in a phenomenological point of view, come out as tied concepts which ought to be indexed with senses recalling their worldboundness.
The main claim of this paper is that Wittgenstein’s concern about the Inner is a highly stratified and complex one. It is indeed so to such an extent, that - if we tend to favor only a single interpretative version of it - we commit the error of a rough reductionism (exactly what Wittgenstein tried to avoid at all levels). First of all, Wittgenstein’s attempt is not that of denying (the reality of) the Inner , but that of clarifying the very nature of the concepts related to it: it is undeniable that we can talk about even our most private experiences, and that others can understand us. From Wittgenstein’s point of view then, language can be also used so that we can, through it, indeed give expression to our deepest feelings, among other things: the Inner cannot consequently be interpreted neither as a completely homogeneous dimension of private experience(s), nor as something which is ineffable. On the contrary, it can be seen as a network of concepts relating the Inner and the Outer in multifarious and possibly ever-changing ways. By stressing in this way the deep, and multifarious, criterial link between the Inner and the Outer, we evidently find that it would turn out very hard to accuse Wittgenstein of reductionism. Thus, if we try to solve questions concerning the Inner aiming at an ultimate solution, we are on the wrong way from a methodological and a substantive point of view, for, as suggested by Wittgenstein, it would amount to seeing philosophy “as if it were divided into (infinite) longitudinal strips instead of into (finite) cross strips”.
In dealing with time, Wittgenstein's thought undergoes relevant changes. Philosophers take hold of the essence of time using propositions like "only the present experience has reality". The logical mistake hidden in this proposition lies in the "bad use" of the adjectival word "present" that would lose its "everyday" use and "functional role" in the language.
Ludwig Wittgenstein rifiuta una definizione degli stati mentali, delle sensazioni, dei desideri nei termini di entità slegate dalla loro formulazione linguistica come se, da una parte, vi fosse la parola denotante e rappresentante e dall’altra l’oggetto (sensazione, desiderio, stato mentale) denotato o rappresentato. Ciò dunque che contribuisce a significare la nostra esperienza vissuta non è una presunta attività prelinguistica, perché una volta che si è eliminata la dicotomia tra linguaggio ed esperienza, tra interno ed esterno, si potrà benissimo riassorbire la nostra sfera privata in quella che Wittgenstein chiama l’ “atmosfera della parola”.
Condividi questo sito sui social