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Andrea Scardicchio
Ruolo
Ricercatore
Organizzazione
Università del Salento
Dipartimento
Dipartimento di Studi Umanistici
Area Scientifica
AREA 10 - Scienze dell'antichita,filologico-letterarie e storico-artistiche
Settore Scientifico Disciplinare
L-FIL-LET/11 - Letteratura Italiana Contemporanea
Settore ERC 1° livello
SH - Social sciences and humanities
Settore ERC 2° livello
SH5 Cultures and Cultural Production: Literature, philology, cultural studies, anthropology, study of the arts, philosophy
Settore ERC 3° livello
SH5_2 Theory and history of literature, comparative literature
Il volume concorre ad arricchire e a integrare quello che è stato, nel generale fervore educativo della stagione che precede e segue l’Unità d’Italia, il contributo offerto dalla letteratura in termini di edificazione delle coscienze. Vi si racchiudono saggi convergenti nella delineazione di problematiche educative, ascrivibili all’esperienza d’interpreti otto-novecenteschi (S. Castromediano, L. Pirandello, G. Deledda) sensibili all’impellenza di un’operazione culturale che fungesse da traino e da catalizzatore delle coscienze italiane, su presupposti identitari e di progresso civile e morale.
Muovendo da una spigolatura del carteggio inedito che Andrea Mustoxidi tenne con Giovan Pietro Vieusseux negli anni 1825-1849, il saggio mira a inquadrare la figura dell’erudito filologo ellenico nella temperie storico-culturale italiana ottocentesca. Nato a Corfù il 6 gennaio 1785, il Mustoxidi giunse in Italia nel 1802, anno della sua iscrizione all’Università di Pavia, da cui prese avvio la sua formazione letteraria, svolta all’insegna del magistero di Vincenzo Monti. Durante il suo operoso soggiorno italiano, che si snoda lungo un arco cronologico di oltre un ventennio, facendo registrare le feconde tappe di Milano, Firenze e Venezia, egli intrattenne rapporti con i maggiori letterati del tempo (Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte, Niccolò Tommaseo, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Giovan Pietro Vieusseux, ecc.), tradotti sempre in imprese collaborative di sicuro impegno e valore. La tracciabilità di quei legami è rinvenibile proprio dall’epistolario dello scrittore corfiota, punto di convergenza di un fitto reticolo di scambi culturali a oggi in massima parte inedito. Esso rispecchia in modo esemplare il carattere e la fisionomia del Mustoxidi, e soprattutto informa abbondantemente sugli interessi coltivati e le relazioni imbastite con i protagonisti dello scenario letterario coevo, nel cruciale periodo storico che dall’età napoleonica giunge all’epopea risorgimentale, passando attraverso la Restaurazione.
Nell’anno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia (2011), delineatosi l’impegno di commemorare figure attive nel panorama del Risorgimento nazionale è rimasto ai margini delle rendicontazioni ufficiali l’importante ruolo assunto nell’Ottocento romantico dalla poetessa abruzzese Giannina Milli (1825-1888), l’abile e colta improvvisatrice di versi, ovunque acclamata artefice di esibizioni poetiche dal vivo modulate su vibranti note patriottico-risorgimentali. Pure muovendo da tale ingeneroso oblio, che si combina con il lacunoso stato degli studi sulla poetessa, restituendo i carteggi editi e inediti della Milli con i corrispondenti Gaetano Brunetti, Giuseppe De Roma, Sigismondo Castromediano, Cesare Braico, Luigi Giuseppe De Simone, Adele Lupo Maggiorelli, Raffaele Rubini, espressioni fulgide e rappresentative del programma politico-culturale intrapreso in Terra d’Otranto negli anni dell’epopea risorgimentale, il saggio mira non soltanto a ricostruire storicamente la natura dei legami intercorsi tra l’abruzzese e gli amici salentini, ma di riflesso a far emergere più precisi tasselli della fisionomia della versatile artigiana della versificazione italiana. Che se da una lato confermano la sua appassionata militanza nel campo delle lettere e dell’ufficio educativo-didattico, dall’altro riservano non poche sorprese per ciò che attiene talune sue posizioni di natura politica, che mal si conciliano con la tradizionale vulgata di una Milli sostenitrice ante litteram della nuova Italia una e sabauda.
La sensibilità che il patriota e memorialista salentino Sigismondo Castromediano (1811-1895) avvertì nei riguardi dei temi dell’educazione e dell’istruzione pubbliche rimanda a un aspetto assai significativo di quella strenua operosità culturale che contrassegnò gli anni del ritiro dalla vita parlamentare del duca cavallinese (in particolare gli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento). L’assillo del Castromediano, in linea con gli avviati propositi governativi di secolarizzazione degli istituti scolastici, ma pure in continuità con la sua impostazione liberale, laica, patriottica, fu quello di sganciare l’universo dell’istruzione femminile dalla conduzione religiosa, che a suo giudizio non garantiva alle fanciulle leccesi un traguardo educativo moderno, ispirato ai valori laici e nazionali. E ciò nel solco di una proposta educativa più pratica, più utile e più spendibile, realizzabile in virtù di un allargamento delle conoscenze delle alunne e di un’opportuna ricalibratura dei metodi d’insegnamento. Fu così che il Castromediano, presidente della Commissione provinciale per il riordinamento secolare dell’Istituto “Vittorio Emanuele II” di Lecce, nel febbraio del 1872 chiamò a dirigere l’educandato l’educatrice milanese Luisa Amalia Paladini (1810-1872), impegnata autrice di romanzi educativi e di genere, nonché direttrice delle scuole normali femminili di Firenze. Direzione breve (per via della prematura morte della milanese), ma molto incisiva per i metodi e le scelte operate (come bene documentano le lettere inedite della Paladini pubblicate nel saggio), tale da lasciare il segno nella storia a venire dell’Istituto, che dopo una serie di sfortunate reggenze laiche, nel 1882 si sarebbe nuovamente affidato alla gestione confessionale (quella delle milanesi suore Marcelline). Nonostante ciò, come si dimostra nel contributo, non fu quella una sconfitta per il pugnace duca salentino, dal momento che ciò che gli stette unicamente a cuore fu il progresso delle giovani menti salentine, obiettivo per il quale si spese sempre energicamente con l’apporto di un personale e fattivo contributo.
Dalla Retorica greco-romana alla novellistica medievale, fino a giungere alle moderne narrazioni testuali, agevolate pure dalle odierne piattaforme interattive e multimediali, il principio della brevitas è stato sempre perseguito in funzione di una forma di comunicazione chiara e concisa, ma sempre pregante e logica nella elaborazione dei contenuti. Attraverso un ampio excursus storico in cui si passano in rassegna i campioni più rappresentativi di tale tecnica espressiva, con uno sguardo anche alle attuali tendenze scolastiche, l'articolo dimostra come emerga anche attualmente similmente al passato l'orientamento verso un moderno e funzionale approccio alle varie forme di produzione, comunicazione ed elaborazione delle conoscenze, all’insegna degli assunti dell’eliminazione degli sprechi e dello sfrondamento degli eccessi. Raggiungibili questi non già mediante una riduzione quantitativa della materia (la scongiurata “bignamizzazione”), quanto piuttosto attraverso una sua consapevole ristrutturazione e razionalizzazione. E ciò in nome di un ideale di concisione e di sintesi che scaturisce fondamentalmente dalla ricerca di chiarezza, semplicità, pulizia logica e formale, che abbina alle esigenze quantitative precise finalità qualitative.
Il contributo ricostruisce minuziosamente, con documenti d’archivio e rilettura di saggi e testi poetici, la parabola storica dei poeti improvvisatori avvicendatisi a Lecce e in Terra d’Otranto dagli anni Trenta dell’Ottocento in avanti (i casi di G. Giustiniani da Imola, A. Bindocci, R. Taddei C. Malpica, G. Regaldi, G. Milli), in piena temperie patriottico-risorgimentale. I quali poeti (tra cui si annoverano pure i casi dei salentini S. Brunetti, C. Rossi, P. Cataldi, F.A. D’Amelio), nella loro distintiva veste di sommovitori di diffusi entusiasmi poetici e di consumati interpreti di messaggi civilmente e patriotticamente connotati, seppure nelle forme di un esercizio minoritario e mondano della poesia ebbero l’indubbio merito di aver tenuto acceso e alimentato in Provincia, forse più di altri, il mito romantico della patria.
E' la prima edizione delle poesie di Francesco Gianni (1750-1822), la cui parabola lirica assume un indubbio rilievo non soltanto in ragione delle poliedriche posizioni assunte dall'improvvisatore romano nel contesto letterario tardo-settecentesco (Arcadia, Preromanticismo, poesia repubblicana, ecc.), in linea con i più noti esempi della tendenza sperimentalistica coeva, ma anche per l’inedito tentativo promosso di aprire la poesia estemporanea ai coevi avvenimenti storico-politici dell’epoca (l’epopea napoleonica), superando i ludici vagheggiamenti che avevano contraddistinto quell’ufficio poetico agli inizi del secolo. Da un confronto diretto operato per la prima volta con i campioni più rappresentativi della sua vasta produzione poetica, sia improvvisata sia meditata, risulta un compiuto ed esauriente ritratto biografico-letterario del poeta giacobino, che è stato ricostruito attraverso un’ampia Introduzione critica, un’articolata Nota bio-bibliografica e un ricco apparato di commento ai testi.
Se è vero che la produzione letteraria di Grazia Deledda si snoda attraverso diramazioni e generi differenti, costellata come fu di volta in volta di giovanili parti poetici, romanzi, racconti e novelle, è vero purtroppo che queste ultime in particolare, sebbene si dipanino ininterrottamente per tutta la carriera della scrittrice (dal 1890 al 1933), costituendo dunque un binario di scrittura parallelo alla sua maggiore produzione romanzesca, siano state perlopiù trascurate ingiustamente dalla critica. A soli diciassette anni, nel 1888, sul settimanale illustrato «Paradiso dei bambini» edito da Edoardo Perino a Roma, l’autodidatta sarda Grazia Deledda pubblicò la novella Sulla montagna, primo suo esempio in assoluto di quel genere. L’anno successivo (1889), sempre nello stesso periodico, apparve un altro suo consimile lavoro, Memorie infantili, poi confluito insieme al precedente nella raccolta Nell’azzurro, novelle per bambini, licenziata dalla scrittrice nuorese nel 1890 (Milano, Trevesini). Era questa la prima raccolta narrativa dell’esordiente scrittrice. Si trattava di racconti della fanciullezza, ma anche scritti per la fanciullezza, dal momento che erano dall’autrice rivolti espressamente ad un pubblico giovanile. Una chiara scelta di campo, dunque, quella della debuttante scrittrice, che consapevole delle finalità insite nell’avallata operazione letteraria si proponeva di solcare e al contempo imprimere una propria orma nei territori di quella letteratura per l’infanzia, che all’indomani dell’Unità d’Italia si era caratterizzata per tutto un fervore di opere e iniziative editoriali, volte a scavare e costruire le fondamenta di tutto un tessuto etico-civile e sociale, ancora da impiantare nella neonata nazione. Ma a guardare anche le moderne sistematizzazioni teoriche e antologiche relative al genere della letteratura per l’infanzia, inclusi pure gli ultimi contributi specifici, nessun cenno e nessun riconoscimento è dato trovare a quell’esperimento giovanile della Deledda, come pure ai suoi racconti ospitati nel più importante periodico italiano per ragazzi dell’epoca, vale a dire il «Giornalino della Domenica» di Vamba, che invece meritano una giusta considerazione storico-critica e poetica, com’è nell’intento del presente contributo.
Che Pirandello abbia avuto un rapporto controverso col mondo della scuola è un fatto risaputo. Il suo profilo di maestro è ormai accertato, e ciò grazie a contributi specifici che hanno di volta in volta messo in luce la sua scarsa propensione per gli obblighi e le pressanti incombenze gravanti sul suo ruolo di professore. Ma tralasciando ogni considerazione riguardante certo suo lassismo scolastico, come pure le vacillanti presenze ai Consigli nonché l’uggia provata verso i colleghi, e valutando invece il contributo offerto nell’ufficio propriamente educativo-didattico, è innegabile che in tale ambito Pirandello abbia sempre denotato uno spiccato senso del dovere nell’ottemperanza agli obblighi formativi, muovendosi lungo un terreno di modernismo pedagogico-istruttivo, messo consapevolmente al servizio di una specifica platea di giovani fruitori (future insegnanti). In varie testimonianze documentarie risultano specifici accenni a un’esperienza didattica, facente leva sui presupposti di un metodo intuitivo e sperimentale, ancorata a una prassi anti-libresca e anti-meccanicistica, organizzata attorno all’espressione delle singole individualità degli allievi e sul rispetto del loro mondo interiore. Il tutto sempre uniformato all’intento di conseguire risvolti formativi pragmatici, validi cioè a innescare pratiche ricadute esistenziali. E nell’ottica dimostrativa di un’autentica vocazione pedagogica pirandelliana (ancora poco esplorata quando non addirittura negata) non meno interesse suscita tutta una giovanile produzione favolistica, dedicata espressamente ai ragazzi, esemplare caso di sconfinamento d’autore nei territori della gettonatissima letteratura per l’infanzia otto-novecentesca. Anch’essa sintomatica rivelazione, insomma, di come la vena pedagogica affiori visibilmente in molteplici circostanze dell’attività di Pirandello (cattedratica e non), che è possibile esaminare in relazione con i risvolti edificanti associati alla sua arte.
Il contributo mira a ricostruire il profilo bio-bibliografico del colto poeta di origini salentine Nino Pinto, promuovendo una prima investigazione critica riguardante la sua poesia, caso emblematico di commistione tra brevità di soluzioni strofico-metriche e profondità di pensiero.
Il volume è frutto del ritrovamento del manoscritto autografo recante l'ultima produzione poetica del letterato novecentesco Nino Pinto. Nato a Lecce nel 1928, Pinto attese agli studi universitari a Firenze, dove conseguì la laurea in Lettere con Bruno Migliorini e Gianfranco Contini. Si spostò poi a Nancy, dove iniziò a collaborare al Trésor de la langue français, occupandosi degli italianismi nella lingua francese. Tornato dopo quattro anni in Toscana e presa dimora a Prato, lavorò all’impresa dell’Opera del Vocabolario italiano. La sua, dunque, fu una formazione prevalentemente linguistica, che trovò poi sbocco nella scrittura letteraria e segnatamente poetica. Al debutto (tardivo) nel 1999 con la raccolta di poesie Fiori di cera, egli giunse a stampare in vita ben 17 sillogi di versi, più un libretto teatrale e da ultimo due racconti, sempre per i tipi della casa editrice Genesi. La sua poesia si affida a soluzioni di corto respiro, che si reggono su misure decisamente brevi, sia di versi sia di strofe, che ricalcano gli schemi dell’epigrafe e dell’aforisma. Tra condensazione stilistica e profondità di pensiero oscilla il pendolo lirico di Pinto, con versi che riportano in superficie un intimo scenario di cupa sofferenza e di acuto disincanto. Il “ritorno” non simboleggia altro che la smania del recupero delle piccole gioie del passato, la vigorosa riappropriazione della libertà di azione, la tensione indomita verso l’appagamento dei palpiti d’amore, il desiderio smodato di rituffarsi nell’agone della vita, che per lui coincideva con la poesia. È un messaggio conclusivo, dunque, quello affidato ai versi de Il ritorno, di lotta e di radicamento alla vita, che consente di superare, e quindi anche di aggiornare, la cifra esclusiva del pessimismo esistenziale con cui ci si è accostati sinora alla poesia del colto e riservato (ma anche ironico e pronto alla battuta intelligente) scrittore di origini salentine. Permettendogli, peraltro, di sancire un vincolo ancor più saldo col prediletto modello leopardiano. Il libretto recuperato e sottratto all’oblio è dunque una sorta di testamento spirituale di Nino Pinto, un lascito etico-valoriale a uso dei suoi lettori, da intendere quale consuntivo di tutta un’esperienza creativa e quindi della sua visione del mondo. Le 191 poesie che si pubblicano per la prima volta figurano manoscritte all’interno di un quaderno a righi con anelli, custodito a Lecce presso la dimora natale di Nino Pinto. La trascrizione ha seguito un criterio conservativo, intervenendo unicamente in presenza di sviste e salti di lettere. Ritenendo utile dar conto della stratigrafia dei testi, e quindi delle scelte compiute dall’autore, si è deciso di registrare in nota le poesie soppresse.
Il saggio ricostruisce per la prima volta il vivace dibattito critico sviluppatosi intorno alla figura e all'opera di Vincenzo Monti in occasione delle celebrazioni del primo anniversario della sua morte (1828). Da una disamina minuziosa di fonti di prima mano (le riviste dell'epoca, quali ad esempio la Rassegna montiana) e dei contributi critici prodotti dai più autorevoli studiosi del panorama nazionale coevo (G. Bustico, F. Flora, Luigi Russo, ecc.), è affiorato lo sforzo complessivo di pervenire finalmente ad un’accurata riconsiderazione dell'uomo e dell’intero statuto lirico del poeta, alla luce dei suoi esatti codici e confini artistici. E ciò al fine di porre urgentemente un argine al pernicioso dilagare di eccessive e ingenerose critiche, espresse talvolta pregiudizialmente nei riguardi dell'alfonsinese, che ne avevano fino allora inficiato l’intero destino interpretativo, ponendo le basi della nascita di tutta una congiuntura critica otto-novecentesca a lui nettamente sfavorevole.
Il contributo documenta la prassi epistolare dell’erudito filologo di Corfù Andrea Mustoxidi (1785-1860), attivo in Italia nel primo quarto del XIX secolo. L’ispezione dei carteggi inediti del corfiota, custoditi presso le maggiori biblioteche italiane (da cui le due importanti lettere che si pubblicano per la prima volta indirizzate a Vincenzo Monti e a Mario Pieri), ha prodotto questo primo bilancio del suo radicamento nel tessuto culturale ottocentesco, nonché dell’influenza che fu in grado di esercitarvi con la sua poliedrica personalità. Personalità che attende ancora di essere adeguatamente valutata in sede critica.
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