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Onofrio Romano
Ruolo
Professore Associato
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
Area Scientifica
AREA 14 - Scienze politiche e sociali
Settore Scientifico Disciplinare
SPS/07 - Sociologia Generale
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Degrowth has been launched into the political arena by activists and intellectuals as a project advocating the democratically-led shrinking of production and consumption with the aim of achieving social justice and ecological sustainability. This overview of degrowth offers to the English speaking-world a comprehensive coverage of the main topics and major challenges of degrowth in a succinct, simple and accessible manner. In addition, it offers a set of keywords useful for intervening in current political debates and fro bringing about concrete degrowth-inspired proposals at different levels - local, national and global. The result is be the most comprehensive coverage of the topic of degrowth in English and serves as the definitive international reference.
“Milano del sud”, laboratorio della nuova destra prima ed epicentro della “primavera pugliese” poi, Bari è da sempre un luogo privilegiato dal quale osservare i fermenti del sistema politico italiano. Questo libro è l’ultima tappa di un lungo itinerario di ricerca sugli effetti della legge 81/1993 di riforma del sistema elettorale per gli enti municipali, che con l’elezione diretta del sindaco rappresenta l’atto simbolico fondativo della cosiddetta Seconda Repubblica. Che cosa è cambiato nei meccanismi e nell’azione di governo?Gli autori si concentrano sulle trasformazioni di più lungo periodo, quelle che hanno resistito agli entusiasmi riformatori della prima ora. Attraverso l’ascolto di un’ampia platea di testimoni qualificati, essi registrano un progressivo declino delle capacità di governance espresse dalle giunte succedutesi durante il secondo mandato del sindaco Di Cagno Abbrescia, ossia dell’efficacia e dell’efficienza nel produrre “beni collettivi locali”.
“Sud, alzati e cammina!”. L’esortazione evangelica ha ispirato le politiche condotte negli ultimi trent’anni nel Mezzogiorno. Le politiche del “localismo virtuoso” (Franco Cassano), fondate sull’idea che lo sviluppo di un territorio dipenda essenzialmente dall’auto-attivazione dei suoi attori. Il volume, frutto di una lunga ricerca condotta dalle Università di Bari, Messina e del Salento, traccia un bilancio di questa stagione, nonché degli effetti della Lunga Recessione globale iniziata nel 2008. Sul piano economico, i risultati appaiono sconfortanti. Sul piano culturale, si registra la sostanziale scomparsa del Sud dalla dieta mediatica nazionale. Il rinnovato protagonismo nelle forme di auto-rappresentazione che sembra controbilanciare questo evento non si sostanzia, tuttavia, nella costruzione di un punto di vista autonomo, finendo piuttosto per disperdersi nel grande calderone della società dello spettacolo. La classe dirigente meridionale sembra riconoscere il fallimento, ma continua per inerzia a scommettere sullo stesso paradigma fin qui egemone. È questo il punto più preoccupante emergente dall’indagine. Non il ristagno del Sud, quanto la scarsa fiducia, manifestata dai membri della sua classe dirigente, che il sentiero da essi stessi indicato possa condurre effettivamente verso una forma di rinascimento. La crisi di “visione” precede e consolida la crisi reale.
Occorre una certa dose di strabismo per approcciarsi alla politica barese e coglierne la contraddizione fondativa: conservatrice e novatrice ad un tempo. La sua classe dirigente si è dimostrata capace di far propri i diversi modelli di regolazione politica che si sono succeduti nel tempo, massimizzando in ogni stagione i benefici attingibili dalle configurazioni egemoni. Forte di questa duttilità, Bari si atteggia a prima della classe dentro lo scenario meridionale (e non solo), ma la sua aura novatrice fa spesso velo alla continuità, poiché l’obiettivo di fondo resta sempre quello di offrire ai detentori del potere e delle risorse ciò di cui essi fanno di volta in volta richiesta. Spesso il ritardo con il quale giunge ad un appuntamento con la storia (determinato quasi sempre dalla riluttanza a staccarsi dagli assetti di potere consolidati) permette a Bari di ritrovarsi in anticipo sugli appuntamenti successivi. Per questo, appare contemporaneamente culla dell’innovazione e rifugio della conservazione. Anticipataria e ritardaria. Disorientando gli analisti. Questo “ossimoro” è stato declinato in maniera specifica in ciascuna delle principali stagioni politiche dell’era repubblicana.
Normally, during modernity, critical thinking and anti-systemic movements have countered the ruling institutions by envisaging not only new values and ideals, but mainly new “forms” of social regulation. The current crisis reveals that, contrary to this tradition, the institutions in office and the antagonistic thought now share the same basic “horizontal” form. The degrowth project represents a paradigmatic example of this structural homology. The ecological and social crises, standing at the origins of the political engagement for degrowth, are not the outcome of execrable “values” but mainly of the “horizontal” form adopted by current institutions. In fact, the horizontal regime is uninterested in the promotion of specific values or ideas of justice. It only assures that each singularity (the citizen and its networks) can freely play its game on the basis of its own values. This indifference is the basic reason for ecological, social and economic deregulation. The paradox of degrowth is that, on the one hand, it evokes the necessity of a return to “vertical” regulation (i.e. collective sovereignty), while on the other, it is deeply subaltern to the paradigm of horizontalism (the same that frames the growth regime).
Degrowth has been launched into the political arena by activists and intellectuals as a project advocating the democratically-led shrinking of production and consumption with the aim of achieving social justice and ecological sustainability. This overview of degrowth offers to the English speaking-world a comprehensive coverage of the main topics and major challenges of degrowth in a succinct, simple and accessible manner. In addition, it offers a set of keywords useful for intervening in current political debates and fro bringing about concrete degrowth-inspired proposals at different levels - local, national and global. The result is be the most comprehensive coverage of the topic of degrowth in English and serves as the definitive international reference.
Can the degrowth project contribute to rediscovering the meaning of democracy? Can the establishment of a real democracy lead to building a degrowth society? And last, has the project of a “democratic degrowth” a real chance to succeed, from a political point of view? If not, how should degrowth be re-thought to foster democracy? These are the questions entertained in this opinion essay. My thesis is that the currently dominant formulation of degrowth and its relationship to democracy are highly problematic. The degrowth proposal reproduces a central paradox of modernity concerning democracy: degrowth does not aspire to restore collective “legein”; it only works like a “teukein”, offering techniques that will allow the human species merely to “stay alive”. Moreover, there is a political problem: while the need for degrowth is presented as very urgent, the tactic for spreading the idea is one of an elitist strategy of voluntary simplicity, which can only work very slowly. The moralistic ideal of voluntary simplicity runs counter to the dominant de-modernized human subject that is becoming prevalent in our societies; as a result, degrowth cannot connect to real social processes and to the emotions of the large part of the population. To make degrowth feasible and to restore democracy, we need to deflate modern subjectivity. Drawing inspiration from Mediterranean anthropologies, I propose a foundation of degrowth on a human subject of “de-thinking” and I discuss the political pathways for such an alternative degrowth project.
Il sistema sanitario pugliese non è inquadrabile in uno specifico modello di governance. Il suo carattere preminente risiede in una sorta di dualismo tra la nuova leadership e la macchina organizzativa. L’azione politica si staglia ad un livello “orbitale”, collezionando best practice nella pianificazione, nella regolazione, nell’innovazione. Ma le tracce di questo lavorio sono poco visibili sul terreno: gli operatori del sistema, attraverso strategie elusive e di sopravvivenza, riescono a ricomporre le pratiche consuete. L’aura novatrice fa velo ad un’immarcescibile continuità.
Il capitolo si concentra su che cosa pensano di fare, dato lo stato delle cose a Sud, i membri della classe dirigente meridionale. In prima battuta, abbiamo provato a tracciare una sorta di “bilancio partecipato” o, per meglio dire, “percepito” della crisi e della stagione del localismo virtuoso. Ci siamo cioè chiesti, al di là degli indicatori socioeconomici e socioculturali “oggettivi”, quale diagnosi i componenti della classe dirigente meridionale tracciano sulla condizione del Mezzogiorno. In secondo luogo, dato lo scenario, come essi vedono il futuro del Sud. Quali strategie e quali politiche, a loro avviso, occorrerebbe adottare per risollevare le sorti del Mezzogiorno. Al di là del merito politico-ideologico-intellettuale, la forza delle visioni, la loro coerenza, la capacità di render conto della realtà, di mobilitare e guidare le energie in una direzione compatibile con i vincoli esistenti contribuiscano in misura rilevante a determinare la condizione del Mezzogiorno.
The contribution focuses on the identity issue with reference to the European integration process. To this aim, the case of the Southern Adriatic area – covering the Italian South-East and South western Balkans (namely Apulia and Albania) – will be highlighted. This region shows many reasons of interest for the whole process of European integration, as it represents a kind of hinge between Western civilization and the East, Europe and the Mediterranean, North and South of the World. Our thesis is that, despite the different traditions, cultural heritage, histories, political dominion etc., the societies facing on the two sides of the lower Adriatic sea share common core attitudes. They were forged on the basis of a similar existential framework: the secular (or century-old?) condition of marginalisation in relation to the hubs of political power. So, the lower Adriatic inhabitants have acquired a particular skill to win the grace of the ruler in office, whoever he was, building, at the same time, a hidden orb in which to preserve their authenticity, their original cultural references. This framework has produced, in the long run, an anti-identitarian people’s constitution, i.e. an “anthropology of the absence”, consisting of two complementary dimensions: mimicry and the vernacular order. This ensures both the merger of dissimilarities and the preservation of an impregnable singularity. The anthropology of the absence still emerges strongly in relation to the new political focus with which this region relates nowadays: the European Union. The implemented policies aimed at cohesion and integration of the peripheral regions are here systematically diverted to reproduce life forms consolidated over the centuries, which escape the fundamental canons of the Western-European model of society. But, far from being included as a disease, the attitude developed in the lower Adriatic could represent a useful suggestion for Europe itself, always faced with the problem of its unresolved identity.
Di fronte all’assenza di popolo che “assedia” lo spazio della politica, si sviluppa in maniera virale una diagnosi consolatoria: i cittadini sarebbero mossi da una formidabile volontà di partecipazione, ma questa è inconciliabile con le rigidità organizzative dei partiti e, di fatto, viene respinta da oligarchie troppo gelose del proprio spazio vitale. L’uva dei contenitori politici risulta acerba al cittadino-volpe. In virtù di questa “favola”, tutto il dibattito s’impantana nella questione delle “forme della politica”: chi vorrebbe architetture più liquide, chi più solide; chi invoca meccanismi di copartecipazione legislativa, primarie, referendum et similia, chi il ritorno di partiti forti e radicati. Questo ci evita di fare i conti con i problemi strutturali che sono alla base della crisi dei processi partecipativi, nonché delle derive leaderistiche che ne conseguono.
Renzi è portatore di un’eccedenza, meglio diremmo di una doppia morale. Ed è quello che ne determina il successo. Certo, il suo progetto manifesto è né più né meno quello di Scelta Civica. I “contenuti” che propone e che prova ad attuare rispondono ai dettami della ristrutturazione neo-orizzontale (il cui modello, lo ribadiamo, è oggi in crisi ovunque). Le “forme”, tuttavia, dicono tutt’altro. Dicono, di fatto, il contrario. Alludono cioè al ripristino del “verticalismo”. Da una parte la ricetta è: liberiamo l’energia della società dalla cappa della politica e delle istituzioni; liberiamo le sue particelle elementari. Dall’altra, egli accoglie la richiesta di quelle stesse particelle elementari di ritrovare una protezione politica. La politica che modella la realtà e ne guida lo sviluppo. Questa è la contraddizione feconda del renzismo. Il capo del Pd e del governo promette “manifestamente” di lasciare liberi, ossia “soli” i cittadini (a costruire i propri percorsi di auto-promozione), di liberarli dalla “casta” politica. Ma “sotterraneamente” promette di liberarli dalla solitudine che affama e depriva le loro esistenze. Di accudirli e proteggerli “politicamente” dai venti del “mercato” che millanta di voler finalmente instaurare.
Per molti decenni la politica ha “determinato” lo sviluppo economico e sociale. L’esistenza delle persone dipendeva di fatto dai processi politici. Vi era quindi tutto l’interesse a starci dentro. Ma il ruolo della politica rispetto ai destini personali e collettivi appare sempre più evanescente, nonostante continui a pesare sul piano simbolico. Le nostre vite dipendono in gran parte da forze che non vediamo o che, comunque, non controlliamo. La disponibilità alla partecipazione viene meno poiché non se ne apprezza la posta in gioco. Non solo le scansioni lavorative e familiari si de-sincronizzano rispetto ai ritmi della partecipazione pubblica, ma soprattutto percepiamo che, per incidere sulle nostre vite, occorre agire su altre variabili, collocate in altri campi della società. Ciò è all’origine del discredito della politica, della sfiducia conclamata, della percezione dell’inutilità del suo costo. La fatica della partecipazione può essere così sostituita da momenti di ricreazione collettiva (primarie, referendum, elezioni dirette), in cui il cittadino, come in un parco-giochi, prova il brivido della “decisione”, ne assapora il simulacro.
Le inefficienze e le deficienze dei sistemi infrastrutturali e dei servizi pubblici nel Sud d’Italia sono spesso, in ultima istanza, attribuite a un deficit civico da cui i cittadini meridionali sarebbero antropologicamente affetti. Forse, però, la spiegazione di tali carenze deve essere cercata nel ruolo di supporto al Nord che le regioni meridionali hanno giocato per decenni, in cambio di prebende e assistenzialismo. Un equilibrio che le recenti trasformazioni socioeconomiche hanno profondamente intaccato, lasciando il Sud impreparato alle sfide dei mercati e dell’economia.
The speed of social dynamics has overtaken the speed of thought. Adopting a dialectical perspective towards reality, social theory has always detected faults in the dominant social pattern, foreseeing crises and outlining in advance the features of new social models. Thought has always moved faster than reality and its ruling models, ensuring a dynamic equilibrium during modernity. Despite any dramatic social crisis, theory has always provided exit routes. The tragedy of current crisis lies in the fact that its social implications are exasperated by the absence of alternative views. This book identifies the causes of this mismatch between thought and reality, and illustrates a way out.
The crisis of political participation in the framework of traditional parties or other structured forms of association has been widely highlighted by sociological literature. For many authors, this trend could be reversed in the long term by the spread of new media, particularly web 2.0, whose interaction possibilities open up the chances for new grassroot experiences of political participation. An interesting case, in this way, is that of “Niki's factories” in the recent campaign for regional elections in Apulia (Italy). We will point out the imaginary statutes of participants, their activities and aggregation patterns. The main result shows that Niki‟s Factories do not fit into a democratic model. They do not increase the chances of people to influence public life, to decide on collective issues. They structurally favour an elite of professional and experts in techniques of persuasion to have primacy in political decisions: a tribal aggregation alien to democratic deliberation and debate, in which individuals come together around a charismatic leader.
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