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Roberto Martucci
Ruolo
Professore Ordinario
Organizzazione
Università del Salento
Dipartimento
Dipartimento di Storia Società e Studi sull'Uomo
Area Scientifica
Area 14 - Scienze politiche e sociali
Settore Scientifico Disciplinare
SPS/03 - Storia delle Istituzioni Politiche
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Questo saggio, utilizzando tutte le fonti disponibili, ricostruisce le premesse teoriche e politiche della riforma giudiziaria francese del 1790. La discussione sulla riforma dell’ordinamento giudiziario impegna l’Assemblea Nazionale Costituente dal marzo all’agosto 1790 quando, con la costituzionalizzazione della giuria penale quale giudice del fatto, sarà definitivamente superata la fase transitoria retta dai decreti Beaumetz (8-9 ottobre 1789), risultando acquisito un modello processuale tendenzialmente accusatorio. Il pluralismo giurisdizionale d’Antico Regime, già posto sotto accusa nel corso della seduta-fiume iniziata il pomeriggio del 4 agosto 1789 era stato praticamente proscritto con l’approvazione definitiva della Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen. Gli stessi Parlamenti e Consigli superiori (Corti di giustizia apicali nella Francia d'Antico Regime), malgrado il grande prestigio culturale di molti suoi esponenti (testimoniato anche dalla qualificata rappresentanza da essi deputata alla Costituente), erano però diventati antinomici rispetto al Nouveau Régime costituzionale delineatosi dopo la crisi estiva del 14 luglio/4 agosto 1789, visto che i Parlamenti, dopo essersi impoliticamente opposti al raddoppio del Terzo Stato, avevano poi manifestato una nuova propensione per la fronda, rifiutandosi di interinare testi d’importanza fondamentale. I tempi per una revisione generale dell’intero ordinamento giudiziario erano considerati maturi. Se ne era reso conto lo stesso Comité de Constitution a maggioranza monarchienne, quando per bocca dell’avvocato Nicolas Bergasse, sin dal 17 agosto 1789 aveva delineato, forse a malincuore, un nuovo sistema al cui interno non vi era più posto per i Parlamenti. Il secondo Comité de Constitution uscito dal rinnovo del 12 settembre 1789 nel volgere di pochi mesi fu in grado di presentare all’Assemblea un nuovo testo legislativo (che sviluppava le premesse teoriche del Progetto Bergasse) letto da Jacques-Guillaume Thouret nelle sedute di martedì 22 dicembre 1789 (i primi dieci Titoli) e di martedì 2 febbraio 1790 (gli ultimi sei Titoli). Così formulato, il nuovo progetto comprendeva sedici titoli preceduti da brevi Observations sommaires concernenti i lavori preparatorî. All’interno di un impianto concettuale reso più saldo dall’avvenuto riordinamento delle amministrazioni locali rese tutte elettive, ritroviamo i giudici di pace nei cantoni, un doppio ordine di tribunali nei distretti e nei dipartimenti, le Corti Superiori interdipartimentali, una Corte suprema di revisione in luogo del vecchio Conseil des Parties, infine, un’Alta Corte Nazionale per giudicare gli attentati alla costituzione. Le materie di polizia diventavano di competenza delle Municipalità; quanto ai giurati, il Comitato si riservava un successivo intervento. Il saggio mette anche a fuoco il ruolo svolto all'epoca dal filosofo e giurista britannico Jeremy Bentham, che viveva con attenta partecipazione gli eventi assembleari d’Oltremanica. Presa, pertanto, visione dei primi dieci titoli del progetto Thouret letti in aula il 22 dicembre 1789, nel giro di novanta giorni, nel marzo 1790, Bentham aveva pubblicato un suo contro-progetto di indubbia originalità, accompagnato da un confronto sinottico dei due testi e da osservazioni critiche rivolte al testo del Comité de Constitution. Non risulta che l’Assemblea Nazionale abbia tenuto in alcun conto la brochure che pure le era stata inviata in omaggio. Pare, anzi, che il veto di Sieyès abbia fatto abortire un tentativo di traduzione. Difatti, l’originalissimo contro-progetto Bentham non rappresentava solo un’alternativa a Thouret, essendo altresì antitetico rispetto all’Apperçu (progetto di riforma giudiziaria) presentato a suo tempo dall'abate Sieyès. Bentham, pur approvando alcuni dei criteri informatori della riforma (in particolare la gratuità dell
il senatore Fedele Lampertico, cattolico e liberale ha occupato un posto di rilievo nella storia politica italiana del post Risorgimento, quale mediatore politico e culturale tra le istanze della provincia cattolica più profonda (il Veneto) e il governo nazionale.
Quando si periodizza la Rivoluzione Francese, si contrappone il legalitario 1789 al terrorista e repubblicano 1793. Questo saggio si sofferma sulla violenza rivoluzionaria dell’Ottantanove, inscrivendola all’interno dello scontro tra riformatori e conservatori tanto nell’Assemblea Costituente che nella città di Parigi. L’azzardata decisione del re Luigi XVI di silurare il Controllore generale delle Finanze Necker (quasi un primo ministro) rende effervescente la situazione, provocando incontrollabili proteste e ondate di violenza in tutto il Regno. In tale contesto prende forma per la prima volta uno dei topoi del decennio rivoluzionario: il mito del complotto contr-rivoluzionario.
nel numero speciale della rivista «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2011-III, pp. 1070-1091 Abstract: Secondo la vulgata storiografica il re post Statuto Albertino (1848) «regna e non governa»; nella prassi le cose andavano diversamente: come attestano le fonti dell’epoca, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II presiedevano il Consiglio dei ministri, sfiduciavano i presidenti del Consiglio anche se supportati da maggioranze parlamentari, nominavano talora alla presidenza del Consiglio il proprio aiutante di campo. Lo Statuto confermava al re “poteri forti” che il capo dello Stato avrebbe esercitato costantemente.
Secondo tutti i biografi, Cavour si sarebbe convertito all’unità italiana solo dopo il successo della Spedizione dei Mille capitanata da Garibaldi e voluta malgrado l’ostlità del conte. Questo saggio, sulla base di un’attenta rivisitazione delle numerose fonti disponibili, dimostra che Cavour ascese alla presidenza del Consiglio il 4 novembre 1852 accarezzando l’ipotesi unitaria. La sua vivace politica estera (Crimea, Plombières) gli consentì di trasformare il periferico Regno di Sardegna nell’interlocutore delle Potenze liberali dell’epoca (Francia e Gran Bretagna); la stessa Spedizione dei Mille non fu che “un’aggressione militare coperta” (gestita da Cavour tramite Giuseppe La Farina, suo collaboratore) contro uno Stato neutrale con cui si avevano regolari relazioni diplomatiche. Grande giocatore d’azzardo, Cavour capì che nel 1860 (dopo i successi del 1859) era giunto il momento di usare la carta dell’isolamento internazionale del governo di Napoli per “monarchizzare” con l’aiuto di Garibaldi il programma unitario di Mazzini.
Classe idiota, nella terminologia ottocentesca, sono i lavoratori dei campi: contadini e braccianti agricoli. La transizione dal pluristatalismo italiano anteriore al 1860 (8 Stati nella Penisola) al Regno d’Italia passò attraverso i plebisciti a suffragio universale maschile. Malgrado in anni recentissimi giovani storici si siano azzardati a rileggerne le vicende proponendo la lettura edulcorata della “festa della Nazione”, la realtà fu diversa. Nei vari contesti statali pre-unitari (Toscana, Ducati Padani, Legazioni Pontificie, Regno delle Due Sicilie, province pontificie marchigiane e umbre) gli elettori furono obbligati a votare sì, utilizzando schede prestampate o firmando su registri; malgrado le intimidazioni, circa il 30% degli aventi diritto si astenne dalle urne; si ipotizza che potesse trattarsi di contadini, diffidenti rispetto a borghesi (Italia centrale) e galantuomini (Due Sicilie).
L’arrivo dei Mille a Palermo e l’imprevista resa del formidabile presidio borbonico presente nella capitale, azzerano la struttura amministrativa siciliana. Come provvedere alla duplice gestione interinale? Interinale rispetto alla primaria esigenza di condurre a fondo una guerra che si voleva di liberazione; interinale rispetto alla imminente confluenza nella comune e agognata Patria italiana, tramite la procedura di annessione agli Stati Sardi. Dovendo dirigere impegnative operazioni militari a Palermo e Napoli Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie, delega l’esercizio dei suoi poteri a due Pro-Dittatori nominati in tempi diversi. Apparentemente, è una decisione che tiene conto del fatto che le Due Sicilie sono un’entità bicefala malamente unificata dopo il Congresso di Vienna (1815): pertanto, l’insediamento di due governi pro-dittatoriali, con due Consigli dei Ministri (o Giunte dei Segretari di Stato) e relative attribuzioni di portafogli ministeriali, attesterebbe una inversione di tendenza rispetto all’accentramento borbonico. Ma si trattava di una normalizzazione solo apparente, dato che, in poco più di cinque mesi, le popolazioni meridionali avrebbero assistito ai più diversi cambiamenti ed avrebbero sperimentato, al pari dei combattenti garibaldini, una ingovernabile confusione di competenze. Il saggio dà conto dei complessi problemi a cui dovette far fronte l'amministrazione garibaldina nel secondo semestre 1860.
Come ha rilevato Warren J. Samuels: “Ideas on the economic role of government have been a major source and a major part of the history of economic thought” (Samuels 2005, p. 393). Di conseguenza, la letteratura su tale tema è sconfinata. Il problema diventa ancora più serio se si tenta di incrociare la riflessione sul rapporto tra Stato ed economia, con quella – altrettanto ampia – relativa al dibattito sulla genesi e sui caratteri del “moderno capitalismo”. L’analisi del rapporto tra Stato ed economia nella fase che portò all’affermazione del modo di produzione capitalistico sembra non avere alcuna autonomia con riferimento all’analisi generale di tale tema. Esso viene interpretato come un aspetto non problematico della visione generale costruita in base ai canoni tardo-ottocenteschi , che accreditano l’idea della divaricazione tra Stato ed economia come un tratto generale del “moderno capitalismo”. Secondo tale visione, Stato e istituzioni svolgono nella genesi e nello sviluppo del capitalismo un ruolo marginale e, in qualche modo, “accidentale”, nel senso hegeliano del termine: “un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile che può non essere allo stesso modo che è” (Hegel 1967, pp. 7-8). In questo contributo, non intendo riflettere sulla vexata quaestio relativa al ruolo dell’intervento pubblico in economia. Ciò su cui intendo richiamare l’attenzione è la scarsa rilevanza interpretativa di questa contrapposizione, specie con riferimento alla nascita del “moderno capitalismo”. Pur non sottovalutando il ruolo del mercato e la “spontaneità” di molti dei fenomeni, che hanno caratterizzato la fase della prima Rivoluzione Industriale, mi sembra utile porre almeno due questioni: 1. le ragioni per cui Smith e gli altri teorici dell’Illuminismo hanno incentrato il loro modello esplicativo sul ruolo del mercato e degli individui; 2. le ragioni per cui Stato e istituzioni politiche non sono oggetto di una riflessione comparabile con quella attribuita al mercato e ai processi di individualizzazione della società dei loro tempi.
Gli anni della Restaurazione napoletana sono segnati dal compromesso tra Dinastia Borbonica e vertici militari murattiani. Tale equilibrio è rotto dalla incauta decisione della Carboneria meridionale di precipitare la crisi istituzionale, provocando un pronunciamiento militare filo-costituzionale. La Costituzione Spagnola detta di Cadice (1812) riadottata a Madrid su pressione dell'esercito, è elevata a modello e imposta a Napoli al re Ferdinando di Borbone, malgrado il radicalismo estremo di quel testo rendesse praticamente impossibile qualunque compromesso. Nel dar conto dell'opera storiografica del Pastori, l'autore ne segnala l'originalità dell'approccio.
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