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Giuseppina Strummiello
Ruolo
Professore Ordinario
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI (DISUM)
Area Scientifica
AREA 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Settore Scientifico Disciplinare
M-FIL/01 - Filosofia Teoretica
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Es lässt sich nicht behaupten, dass in Heideggers Schriften Meister Eckhart nur sporadisch gegenwärtig sei oder seiner Erwähnung kein Gewicht zukomme. Ganz im Gegenteil ist es in der kritischen Auseinandersetzung mit Heidegger eine anerkannte Tatsache, dass Heidegger sich – von den ersten Vorlesungen bis hin zu deren Ausarbeitung in den vierziger und fünfziger Jahren – durchgehend nicht nur auf Begriffe und Themen bezieht, die der mystischen Tradition im allgemeinen angehören, vielmehr insbesondere auf solche, die dem spekulativen Horizont Eckharts eigen sind. Mehr denn um eine explizite und systematische Auseinandersetzung handelt es sich in diesem Fall allerdings um An- oder Nachklänge, Ähnlichkeiten, die zuweilen jedoch die Form von regelrechten lexikalischen Anleihen annehmen. Als bedeutendste fallen darunter die Termini Gelassenheit (damit verbunden Abgeschiedenheit) und Got(t)heit. Ich möchte also versuchen, einigen der wichtigsten Vorkommen dieser „alten Wörter“ aus eckhartschem Zusammenhang in den Heideggerschen Schriften nachzugehen, um zu überprüfen, ob diesen eine wirkliche begriffliche Affinität zukommt. Da die Gelassenheit und die ihr verbundene Abgeschiedenheit eine größere Aufmerksamkeit in der neueren Rezeption gefunden haben, beschränke ich mich darauf, einige wenige wesentliche Züge ihres Gebrauchs bei Heidegger und Eckhart zu rekonstruieren, um das Augenmerk dann vor allem auf das Thema Got(t)heit zu richten.
L’attuale mondo globalizzato sembra contemplare un paradosso: da una parte, a causa dell’allentamento dei confini e delle divisioni territoriali, sembra più facilmente consentire l’appello all’universalità dei diritti e alle strategie universali di inclusione; dall’altra parte, a dispetto di ciò o forse proprio a causa di ciò, esso costituisce una dimensione in cui l’universalità in quanto tale (dei diritti e delle pratiche) sembra essere privata di ogni significato, o al limiti di ogni efficacia. In questo contributo, considerando il ruolo che la filosofia può ancora giocare a questo riguardo, l’attenzione sarà rivolta sulle dinamiche di inclusione ed esclusione così come esse operano nella sfera dei diritti e della cittadinanza, generando una peculiare forma di violenza – una violenza che non è solo il risultato di pratiche di esclusione, ma anche quella che viene esperita sotteraneamente sotto la superficie dell’inclusione e dell’universalizzazione.
Buona parte della filosofia novecentesca può essere caratterizzata come pensiero della crisi: un pensiero declinato in modalità assai diverse, frammentato, molteplice, per effetto del tramonto o della vera e propria disgregazione di quei modelli di razionalità forte che avevano permeato di sé la modernità fino al culmine rappresentato dalla stagione dell’idealismo. All’interno di questa composita e articolata costellazione della filosofia del Novecento che sembra appunto aver decretato l’esaurimento, se non addirittura l’estinzione, della razionalità moderna in senso stretto, María Zambrano –– occupa però un posto del tutto particolare, così come peculiare è d’altronde proprio il suo tentativo di ripensare, alla luce della crisi dell’uomo europeo o occidentale, il soggetto e i modi con cui esso stesso si pensa e pensa, configura la realtà e i suoi rapporti con essa. In questo contributo si intende provare a considerare proprio l’analisi operata dalla Zambrano della crisi dell’Europa e del suo modello antropologico, delle ragioni di questa condizione e soprattutto del ruolo ancipite che il cristianesimo sembra aver giocato, o sembra continuare a giocare, in questa storia, come concausa della crisi e insieme come possibilità di un suo superamento. La crisi europea è innanzi tutto la crisi dell’idea di Europa, e cioè di una intera tradizione, di un paradigma, di una forma spirituale. Al centro di questa meditazione c’è il cristianesimo come matrice dell’Europa, e, in particolare, la versione che di questa sua origine l’Europa stessa ha realizzato. Esiste un nesso profondo, per la Zambrano, tra cristianesimo e violenza, a patto tuttavia di distinguere due forme di violenza, a cui corrispondono due distinti modi di interpretare, ma anche di esperire e vivere il cristianesimo: una creatrice e positiva, l’altra distruttrice e negativa. La prima forma di violenza è quella originaria del Dio biblico e cristiano, il Dio creatore che trae il mondo dal nulla. Ciò che ha trasformato la storia europea in un teatro di guerra e crudeltà è invece il fatto che l’uomo europeo non è stato in grado di mantenersi all’altezza del compito indicato dal cristianesimo, cioè della sua violenza creatrice. L’uomo europeo non ha tollerato la tensione di una creazione ogni volta rinnovantesi, preferendo la soddisfazione della produzione immediata. Da qui la seconda forma di violenza prima citata: quella terribile, negativa, annichilatrice, che ha portato l’Europa cristiana del Novecento a calpestare l’ideale di persona (e dei suoi diritti) che essa stessa aveva elaborato e di ripiombare nell’orrore inaudito dei totalitarismi. La “grave malattia” dell’Europa, la sua violenza, dunque, non è altro che il tradimento, la versione perversa della violenza originaria, ontologica, ovvero creatrice, del cristianesimo. Ma proprio ripensando questa storia e questo scarto (in un senso dunque assai diverso da ciò che suggerisce oggi una certa retorica delle «radici»), l’Occidente può scorgere una possibile via di rinascita e salvezza.
Sich danach fragen, in welchem Verhältnis die Metaphysik und ihr Nachleben zueinander stehen, heißt vielleicht zunächst einmal sich danach fragen, welcher Stellenwert dabei eigentlich dem post- zukommt. Anders gesagt: auf welche Weise modifiziert und qualifiziert das Präfix post- die Metaphysik selbst? Zeigt es die Zäsur zwischen zwei völlig verschiedenen Umgebungen oder Ordnungen an, deren letztere sich der ersteren entgegensetzt (post-Metaphysik als anti-Metaphysik), oder besser ausgedrückt, setzt es sich an die Stelle der ersten aufgrund von deren Erschöpfung, Auflösung, Verflüchtigung? Oder spielt das post- auf die Eröffnung eines anderen Horizontes an (post-Metaphysik als Möglichkeit eines neuen Anfangs von Denken), welcher dennoch nicht von sich aus neu ist, sondern das, was der andere in seinem gesamten Verlauf hervorgebracht hat, wieder aufnimmt und vertieft? In dieser letzteren Annahme verwiese das post- mithin in erster Linie auf die Anerkennung einer Unumgänglichkeit – d.h. auf die Tatsache, dass – wie sehr man auch die Notwendigkeit beschwören mag, aus dem Gefilde der Metaphysik herauszukommen – es niemals möglich sein wird, sich wirklich von ihr zu verabschieden. Die post-Metaphysik bestünde in diesem Sinne aus einer Art von Rückverweis an die Metaphysik, und demnach nicht so sehr in einer Überwindung und Abschaffung sondern in einem Vorhaben, sich die Metaphysik auf anderer Ebene wieder anzueignen –, so als ob das post- nicht auf einen augenblicklichen Übergang sondern auf eine strukturelle Schwelle hinwiese, auf die Notwendigkeit, sich zugleich innerhalb und außerhalb der Metaphysik aufzuhalten, oder in ihr, aber auf andere Weise: ekzentrisch, versetzt. Schließlich könnte das post- nicht so sehr eine Folge oder Ablösung (ein ‘nach’) und auch nicht nur einen strukturellen und der Metaphysik selbst innewohnenden Hiatus (ein Einschub, ein ‘zwischen’) anzeigen, sondern eine rückwärts gewandte Bewegung, die vom ‘danach’ ausgehend ihr ‘zuvor’ konstituiert – die sich mithin nicht einfach nach dem, was gewesen ist, ansiedelt, wobei sie dies abwehrt oder sich diesem übergibt, vielmehr erschafft, konstituiert sie es, und kommt also in gewisser Weise auch vor diesem, so wie Borges zufolge die nachfolgenden Autoren sich bisweilen ihre Vorgänger schaffen.
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