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Giuseppe Losappio
Ruolo
Professore Associato
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO JONICO IN "SISTEMI GIURIDICI ED ECONOMICI DEL MEDITERRANEO: societa', ambiente,culture
Area Scientifica
AREA 12 - Scienze giuridiche
Settore Scientifico Disciplinare
IUS/17 - Diritto Penale
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Il diritto penale non conosce una tutela specifica del consumatore, né una tutela organica dei (relativi) diritti codificati dal codice del consumo, ma soltanto una tutela del prodotto e della produzione oltre che, in “misura” notevolmente inferiore, una tutela di alcuni servizi (l’intermediazione finanziaria, in particolare). Non è azzardato, quindi, affermare che non esiste un “diritto penale dei consumatori” ma esistono un diritto penale (di alcuni aspetti) della produzione, un diritto penale dei prodotti e un diritto penale di (alcuni) servizi e, solo in questo senso parcellizzato e frammentario, un “diritto penale del consumo”, disseminato tra codice penale e leggi penali speciali. L’ottica di queste disposizioni, tuttavia, è comune. Sono incriminazioni che non allestiscono una protezione direttamente orientata a favore dell’uomo-consumatore in carne e ossa; alla stessa stregua di molti altri reati in cui è «preminente l’interesse pubblico rispetto all’interesse privato», la tutela riguarda piuttosto interessi superindividuali ovvero, secondo il lessico più specifico ma non più selettivo della teoria penale, beni di categoria o beni scopo. Si ripropone pertanto il problema – evidenziato tra gli altri da Roxin – di una giustizia penale che delude gli interessi del soggetto passivo. Per superare queste difficoltà può giovare un’accorta gestione delle disposizioni del codice penale e del d.lgs. 231/2001 (responsabilità da reato degli enti) che permettono al giudice di condizionare la punibilità, subordinare alcuni “benefici di legge” (es. la sospensione condizionale) o la misura della pena al risarcimento del danno.
Lo studio della tutela penale delle funzioni - tema emblematico del preteso declino, dell’incerto presente e dell’oscuro futuro del diritto penale - appare intriso di valenze “ideologiche" che lo espongono alle insidie dell’inversione metodologica, tema, anche per questa ragione, lontano dall'avere trovato un punto equilibrio tra la dimensione della parte generale e le continue variazioni sul tema della parte speciale in cui la stessa protezione delle funzioni si “incarna” e si disarticola. Sorge da questa considerazione l'esigenza di procedere ad una rivisitazione metodologica che sappia cogliere le distinzioni su quattro livelli: oggetto di tutela (reati che tutelano tutte le “funzioni”, reati che tutelano una singola funzione, reati che tutelano le funzioni di vigilanza) autore (intraneus, non intraneus comunque sottoposto alla vigilanza, extraneus); la condotta (in rapporto alla disciplina extrapenale) e la forma dell'offesa (danno-lesione, pericolo). Cogliendo e valorizzando il gioco di variabili e costanti, (ri-)definito sulla base di questi elementi, si delinea l'opportunità di reimpostare la riflessione implementando la maestosa elaborazione di “parte generale” con il riferimento agli ineludibili termini di verifica che copiosamente esprime la parte speciale (sino ad ora piuttosto trascurati).
Una costante del sistema penale contemporaneo è l’emergenza. La pena dell’emergenza è volta alla rimozione del reo e, attraverso questa eliminazione, coltiva l’illusione di ricostruire una società più sicura. La “rimozione” è l’unica funzione della pena veramente assoluta, ermeticamente chiusa nei confronti di qualsiasi proiezione finalistica ulteriore; la “rimozione” è, dunque, pratica della pena mono-funzionale. Non è, tuttavia, una tendenza uniforme che riguarda indiscriminatamente tutti gli autori e tutti i reati. Distinguiamo situazioni in cui si registra un bisogno di pena rimozionale anche in assenza di meritevolezza di pena; situazioni in cui il bisogno di pena rimozionale corrisponde ad un fatto meritevole di sanzione; situazioni in cui la meritevolezza di pena non è assistita dal bisogno di pena (rimozionale).
L’accoglienza che la maggior parte della letteratura penalistica ha riservato all’articolo 113 c.p. è sempre stata piuttosto fredda, se non addirittura francamente ostile. In realtà l’esperienza storica e quella comparativistica dimostrano che, pur mutando sensibilmente i dati normativi, il problema del concorso colposo è legato che alla cornice positiva di riferimento alle forme di manifestazione della “vocazione” incriminatrice della plurisoggettività – che sono logicamente tre, ovvero la mancanza della correlazione tra regola cautelare violata ed evento (c.d. causalità della colpa); la non rilevabilità della violazione di una regola cautelare nonostante la sussistenza di una relazione causale tra la condotta e l’evento; la mancanza di colpa e causalità. L’analisi diacronica (dottrina e giurisprudenza all’epoca del codice Zanardelli) e quella sincronica-comparativistica (riferita alla dottrina tedesca e spagnola) dimostrano esattamente che il problema del concorso colposo riguarda la possibilità di configurare un ambito di responsabilità al di là dei contenuti della responsabilità monosoggettiva/individuale colposa. Anche in un “sistema” come quello tedesco dove dovrebbe essere scontata la non punibilità della partecipazione ad un fatto colposo (per cui la distinzione tra autore e altri “concorrenti”, denominati partecipi, rileverebbe solo nell’ambito dei fatti dolosi) le questioni nelle quali si esprime la “vocazione” incriminatrice della plurisoggettività hanno trovato ampio riconoscimento presso la letteratura penalistica e la dottrina. In questo contesto sembrano ancora lontana la prospettiva che si avverino sia l’auspicio, formulato da Kohlrausch nel 1939, di vedere definitivamente affermata la punibilità delle condotte di partecipazione anche a titolo di colpa sia la speranza di von Buri di veder sorgere l’alba del giorno in cui la coautoria colposa sarebbe stata solo un ricordo della storia. La questione presenta profili teorico-politico-criminali, teorici-di principio e teorico-dogmatico-concettuali. Senza dubbio con la Costituzione gli «schemi di disciplina e di garanzia», che la parte generale traduce dal livello dei principi a quello delle regole, hanno assunto, appunto, rilevanza costituzionale, divenendo intangibili. Ciò nonpertanto, i principi non possono essere convertiti in un modello dogmatico. La Carta esige la colpa, non indica qual è il modello di colpa “costituzionale”; lo stesso vale per la causalità. Quando invoca l’avallo della costituzione l’elaborazione teorica deve conservarsi fluida, flessibile, capace di sostenere entro certi limiti margini di oscillazione. Altrimenti si “dogmatizza la costituzione” invece di costituzionalizzare la dogmatica, e salta l’equilibrio del sistema. L’esclusività del modello plurifattoriale monosoggettivo è appunto una rispettabile proposta di costituzionalizzazione della dogmatica, non il modello di responsabilità imposto dalla costituzione, nella quale non si legge alcuna gerarchia nei rapporti tra l’art. 41, comma 3, c.p. e l’art. 113 c.p.; l’esclusività del modello plurifattoriale monosoggettivo vale quanto l’altrettanto plausibile interpretazione dell’art. 27 che traduce il principio personalistico in termini di «rimprovero personale» e non esige a tal fine l’indefettibile accertamento del nesso causale ricostruito in termini rigorosamente condizionalisitici. Molto a fini della scelta dipende dalle opzioni politico-criminali che guidano l’autorappresentazione del compito proprio della letteratura penalistica di declinare armonicamente il rapporto tra valori e mezzi; né, in questa prospettiva, le soluzioni più orientate in senso garantistico, solo per questa ragione, possono essere considerate più coerenti con la costituzione. Del resto, l’aut/aut, colpa monosoggettiva e concorso nella colpa altrui, fuorviando la comprensione del rapporto tra colpa, complessità e
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