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Andrea Leonardi
Ruolo
Ricercatore
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI LETTERE LINGUE ARTI ITALIANISTICA E CULTURE COMPARATE
Area Scientifica
AREA 10 - Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Settore Scientifico Disciplinare
L-ART/02 - Storia dell'Arte Moderna
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Il successo della Repubblica di Genova è stato misurato dagli storici sulla base dei fasti commerciali e finanziari che nel corso dei secoli hanno garantito la sua prosperità in equilibrio tra le sfere di influenza francese e spagnola. Una potenza paradossale per più motivi: 1) perché dotata di una proiezione globale, ma sostanzialmente priva di un vero territorio, a eccezione di quegli imbelli Domini costellati di ville e giardini che il cartografo Matteo Vinzoni illustrò alla metà del Settecento con dovizia di particolari; 2) perché dotata di un sistema di potere contrario alla monarchia, ma cresciuto grazie ad una aristocrazia di mercanti abbastanza scaltri da nominare la Madonna regina della città (1637) e, contemporaneamente, da ricercare nel meridione regnicolo una legittimazione neo-feudale; 3) perché titolare di un rapporto con la Curia romana cementato sì da papi e cardinali spesso di origine ligure, ma non sufficiente ad arginare la furia del visitatore apostolico Francesco Bossio contro dimore talmente ricche da rischiare di «oltrepassare la christiana modestia» (1582). E’ in questa complessa e contraddittoria politia che si crearono le condizioni per un gran numero di iniziative legate all’arte e all’architettura che, comunque, non bastarono a far sì che chiunque vivesse a Genova fosse prospero e felice: le case non erano tutte simili alle dimore disegnate da Galeazzo Alessi e poi ‘propagandate’ da Pietro Paolo Rubens! La cifra di quanto la povertà fosse diffusa anche a Genova è data dall’enorme cubatura dell’Albergo dei Poveri che le classi agiate fecero costruire (1652-’56) essenzialmente per togliere (e togliersi) di torno gli inopportuni mendicanti assiepati davanti alle eleganti abitazioni affacciate sulle Strade Nuove o concentrate nelle riservatissime ‘curie’; dimore oggetto di un quarto paradosso, quello identificato dal pittore-diplomatico fiammingo al servizio dei Gonzaga che ebbe a scrivere di residenze di «gentiluomini» (va ricordato, al governo di una Repubblica), paragonabili per splendore a palazzi di principi «assoluti», a capo di una Monarchia. Il ‘caso Genova’ è intrigante perché tutte le componenti appena ricordate hanno contribuito ad alimentarne il mito. In questo volume non si è inteso stabilire se si tratta di un mito vero o falso, ma capire - principalmente attraverso una rosa di inventari scelti per esemplarità - come questi aspetti abbiano impattato sulla vita di alcuni casati, i Sauli, i Brignole-Sale, i Pallavicini, i Grillo, i Centurione. Uno spoglio filologico che, unito a quello condotto su numerosi altri documenti, è servito a porre in risalto la grande varietà di caratteri, destinazioni e beni che una dimora genovese poteva vantare, la funzione degli oggetti d’arte nella vita del clan o, per dirla con le parole di Marta Ajmar, «the cultural significance of things». A tal proposito, non esiste una risposta univoca. La ricerca ha provato a trovare una strada attraverso la cultura materiale e visuale della casa genovese tra Sei e Settecento intesa come strumento di interpolazione tra immagine pubblica e privata. L’ambiente domestico, e al suo interno la famiglia che viveva circondata da determinati mobili, da determinati quadri e da determinati apparati decorativi (spesso decisi in piena coerenza con le scelte sperimentate all’esterno di quelle mura, nelle cappelle e nelle chiese gentilizie), dimostra una consapevolezza di marca europea pari o addirittura superiore ai risultati economici. Ricchezza e immagine, articolazione e identità della famiglia, tipi autoctoni delle pratiche decorative e degli stili artistici e architettonici, modelli di acquisizione degli oggetti, attributi dell’aristocratico lifestyle genovese, sono tutti elementi che si intersecano tra loro, con l’obiettivo di fornire una lettura ‘altra’ rispetto a quella, celebre, di Francis Haskell, il quale, nel grande affresc
Il volume propone una lettura della 'Genoese Way of Life' tra Seicento e Settecento attraverso il filtro della cultura materiale e visuale della casa aristocratica intesa come spazio del collezionismo, nonché come strumento di interpolazione tra immagine pubblica e privata. Il successo dei genovesi e della loro Repubblica sin dal XVI secolo è stato misurato dalla critica soprattutto sulla base dei fasti commerciali e finanziari che hanno garantito la sua prosperità in equilibrio tra le sfere di influenza francese e spagnola. In questo, una potenza paradossale essenzialmente per due motivi: 1) perché dotata di una proiezione globale, ma priva di un vero e proprio territorio di riferimento (a eccezione di quegli imbelli ‘Dominii’ costellati di ville e giardini che specie la cartografia del Settecento illustrò con dovizia di particolari); 2) perché costruita su un sistema di potere contrario alla monarchia, ma comunque cresciuto grazie a una oligarchia mercantile abbastanza scaltra da nominare la Madonna ‘regina della città’ (1637) e, contemporaneamente, da proiettarsi sul meridione regnicolo alla ricerca di una legittimazione neo-feudale. Un terzo paradosso è possibile individuarlo nel rapporto con la Curia romana, cementato sì da papi e cardinali spesso di origine ligure, ma non bastevole ad arginare la furia del visitatore apostolico monsignor Francesco Bossio contro il modello residenziale dei genovesi, da lui ritenuto talmente ricco da rischiare di «oltrepassare la christiana modestia» (1582). In una così complessa e contraddittoria politia si crearono le condizioni per un gran numero di iniziative legate alla dimensione artistica e architettonica dell’abitare, comunque non sufficienti a far sì che chiunque vivesse a Genova potesse davvero beneficiare di sontuose dimore. Infatti, le case non erano certo tutte simili a quelle disegnate da Galeazzo Alessi e poi propagandate da Pietro Paolo Rubens: la cifra di quanto la povertà fosse diffusa anche a Genova è data dall’enorme cubatura dell’Albergo dei Poveri che le classi più fortunate fecero costruire (1652-56) per eliminare dal loro sguardo i mendicanti assiepati davanti alle eleganti abitazioni affacciate sulle Strade Nuove o concentrate nelle riservatissime curie. In un simile panorama, le dimore in questione sono diventate oggetto di un quarto paradosso, quello notato dal ricordato pittore-diplomatico fiammingo al servizio dei Gonzaga che ebbe a scrivere di residenze di «gentiluomini» (al governo di una Repubblica), paragonabili per splendore a palazzi di principi «assoluti a capo di una monarchia». Il caso ‘Genova’ è intrigante perché tutte le componenti appena ricordate hanno contribuito ad alimentare una sorta di mito. In questo libro non si è inteso stabilire se si tratta di un mito vero o falso, ma capire come questi aspetti abbiano impattato nel Seicento e poi ancora nel Settecento - quindi per tagli cronologicamente coerenti - sulla vita di alcuni casati presi in considerazione quali casi esemplari, come i Sauli, i Brignole-Sale, i Pallavicini, i Grillo, i Centurione. Il tutto attraverso uno spoglio sistematico delle fonti archivistiche condotto su numerose tipologie di documento (inventari, lettere, memorie, libri contabili, testamenti) utile per porre in risalto la grande varietà di caratteri, destinazioni e beni che una dimora genovese poteva vantare, la funzione degli oggetti d’arte e del collezionismo nella vita di un gruppo familiare o, per dirla con la disarmante efficacia delle parole di Marta Ajmar, «the cultural significance of things». L’ambiente domestico, e al suo interno la famiglia che viveva circondata da mobili, quadri e apparati decorativi - spesso decisi in piena coerenza con le scelte sperimentate all’esterno di quelle mura, nelle cappelle e nelle chiese gentilizie - dimostra una consapevolezza di marca europea in linea con i brillanti risultati economici. Ricchezza e immagine, articolazione e
La prima edizione (1771) delle “Delizie tarantine” di Tommaso Nicolò D’Aquino (1665-1721) è dedicata al nobile genovese Michele Imperiale principe di Francavilla (1719-1782). Muovendo da questo aspetto, il saggio propone un focus sul caso-studio ‘Taranto’ in una dinamica complessa di relazioni storico-artistiche tra la Repubblica di Genova e il Viceregno, tra la Liguria e la Puglia dei nostri giorni. Elementi chiave del saggio riguardano gli aspetti del mecenatismo, le scelte degli artisti e i sistemi residenziali che hanno interessato queste due macro-aree. Non solo, si è provato a indagare il legame fra Taranto e le zone a ponente della città di Genova: Cornigliano e Sampierdarena sono dei quartieri di ville costruiti tra XVI e XVII secolo, con importanti addizioni nel corso del Settecento; qui vivevano anche dei ‘pugliesi’ come gli Imperiale principi di Francavilla. Sfortunatamente, all’inizio del XX secolo, diverse fabbriche trovarono posto in questa parte di città, inclusa l’ILVA nata proprio a Genova nel 1905. Una simile pressione industriale ha causato, come a Taranto, diversi problemi all’ambiente, al paesaggio e al patrimonio storico-artistico. In tali contesti, è possibile ipotizzare di sperimentare nuove modalità di ricerca storico-artistica: in particolare, le ricostruzioni 3D basate su un approccio iconologico ed ecologico che, già applicate all’area genovese, potrebbero rappresentare un modello di studio estendibile anche a Taranto.
The essay proposes a focus on the relationships between Genoa and Bologna in the middle of the 17th Century. The topic is a letter written in May 1641 by Giovanni Battista Manzini (1599-1664) to Gio Antonio Sauli (1596-1661) about ten pictures of Guido Reni bought by Anton Giulio I Brignole-Sale (1605-1662). The quality of the paintings mentioned in the letter, especially four ‘Sibille’, was questioned. Anton Giulio Brignole- Sale wrote to Manzini: “de quadri le quattro Sibille (...) sono sicuramente stimati copie, in alcuna delle quali Guido, al più, al più, habbia data qualche pennellata”. Later, Manzini wrote to his friend Sauli for an help in this difficult diplomatic relationship, to re-establish his honor. This is not surprising. The noble Genoese Gio Antonio Sauli is known for his interests in art and patronage. Especially, he loved the works of Orazio Gentileschi. The unknown letter written by Manzini to Gio Antonio Sauli in 1641 is an important new element to understand the complexity of the phenomenon of collecting.
La durata del processo di beatificazione di Alessandro Sauli, cominciato in prima battuta a Pavia negli anni 1624-’25, ma terminato solo nel 1741, è uno dei motivi che ha spinto la famiglia Sauli a riconsiderare il ruolo della basilica di Santa Maria Assunta in Carignano a Genova. Se, ancora agli inizi del Seicento, il manufatto costruito dal 1548 su progetto di Galeazzo Alessi era percepito per lo più come emblema gentilizio, con le notizie delle prime grazie da lui concesse diventa, molto gradualmente, anche luogo di trionfo del santo in pectore. Grazie, quelle del vescovo barnabita, peraltro coincidenti con la beatificazione (1610) dell’esponente in assoluto più noto della sua medesima congregazione, vale a dire san Carlo Borromeo. Certo sull’atteggiamento dei Sauli ha pesato anche la celebrazione agiografica di Alessandro: promotore di opere d’arte al pari della sua famiglia d’origine, egli fu vicino in particolare al pittore milanese Ambrogio Figino; sempre Alessandro è descritto interessato all’architettura, a tal punto da essere paragonato da Valeriano Maggi allo stesso autore delle Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae (1577). E’ il 1974 quando Maria Luisa Gatti Perer pubblica sulla rivista Arte Lombarda i risultati di un’articolata ricerca condotta su un ciclo di disegni destinati a illustrare episodi della vita di Alessandro Sauli, due dei quali contemporanei alla fase di allestimento degli apparati per la sua beatificazione. Fogli tutt’ora custoditi presso l’Archivio Storico dei Barnabiti a Milano. Nella città dove la famiglia di Alessandro aveva la sua cappella gentilizia in Santa Maria delle Grazie, si sono conservate dunque anche importanti testimonianze grafiche e documentarie di una vicenda che conobbe il suo esito sontuoso appunto nella basilica di Carignano, sotto l’abile regia di Lorenzo de Ferrari, il quale, sempre nella città genovese, aveva già curato gli apparati per le canonizzazioni di Stanislao Kotska e di Luigi Gonzaga nella chiesa del Gesù (1726), nonché quelli per Caterina Fieschi-Adorno nella cattedrale di San Lorenzo (1736). Dell’apparato di De Ferrari esiste anche una breve ma efficace descrizione individuata nel fondo Sauli dell’Archivio Durazzo-Giustiniani a Genova. Si tratta del coronamento di un percorso sviluppato coniugando spazi e devozione che ha permesso di valorizzare non solo il profilo del neo beato, ma anche le scelte di committenza compiute in chiave transgenerazionale dai diversi membri della famiglia Sauli tra Sei e Settecento, prima da Gio Antonio (1596-1661), poi da Francesco Maria (1622-1699), quindi da Domenico Maria Ignazio (1675-1760). L’apparato per la beatificazione di Alessandro Sauli diventa così il tramite per porre a sistema i principali esiti di una formidabile stagione artistica sempre chiamata a confrontarsi con l’esperienza di Pierre Puget e delle sue due statue collocate nei pilastri, un san Sebastiano e ‘un vescovo’, quest’ultimo pensato per ‘rappresentare a suo tempo il venerando Alessandro Sauli del quale si tratta la beatificazione’.
L’ inserimento di Vicenza nel novero dei siti considerati “patrimonio dell’umanità” dall’UNESCO risale al 15 dicembre 1994. In quella occasione, nella esotica cornice di Pukhet, in Thailandia, furono individuati i monumenti palladiani conservati nel centro storico e tre ville ubicate subito fuori le mura. Nel 1996, il prestigioso riconoscimento è stato esteso alle altre ville palladiane sparse nel territorio che abbraccia non solo la provincia di Vicenza, ma anche quelle di Padova, Rovigo, Treviso, Venezia e Verona.
L’analyse est centrée sur la riche activité, dans le contexte génoise et ligure, des peintres qu’ont travaillé sur le rapport entre ‘quadrature’ et image figurée sur les voûtes et les parois frusquées à partir de la troisième décennie du XVIIe siècle jusqu’à la cinquième décennie du XVIIIe siècle. Dans l’étude de l’espace et de la fausse architecture d’illusion, on voudrai spécialement considérer, d’un côté, les différences d’invention dans la structure de perspective entre les artistes du premier Baroque génois, Andrea Ansaldo e Giulio Benso, et les peintres qui ont travaillés à Gênes entre XVIIe et XVIIIe siècle. De l’autre, on se propose aussi d’étudier le rôle et la fonction, dans ce domaine, des sculptures peintes : présences des sculptures à faux marbre, à faux stuc et à faux bronze sont insérées dans la scène à fresque avec une référence au contexte iconographique et avec un rôle fort de scansion structurale et d’accentuation rhétorique du sujet. La recherche veut ainsi porter en évidence les différentes moments de cette complexe univers décoratif, qui arrivera, entre XVIIe et XVIIIe siècle, à une intégration totalisante entre l’élément de la sculpture d’illusion et la scène principale représentée. Le projet de ces espaces ‘compliqués’ doive être suivi à travers la lecture des dessins des artistes et des leurs ateliers et, aussi, avec les témoignages des traités de perspective, à partir de Le due regole della prospettiva pratica di J. da Vignola con i commentarij del R.P.M. Ignatio Danti, Roma 1611 (ed. Stamperia Camerale; prima ed. 1583) et Lo inganno degli occhi, prospettiva pratica di Pietro Accolti, gentiluomo fiorentino e della toscana Accademia del Disegno. Trattato in acconcio della pittura, Firenze 1625, jusqu’à A. Pozzo, Perspectiva Pictorum et Architectorum…, Roma 1693-98.
L’Archivio Durazzo-Giustiniani di Genova conserva un quaderno intitolato «Dissegni della casa posta sopra la piazza de Giustiniani» (mm. 284x210), databile alla metà del ‘600. Le piante dei diversi livelli presentano sorprendenti inserti a pop-up che consentono di comprendere, quasi come in un 3D ante litteram, la puntuale conformazione della struttura, con l’indicazione della destinazione d’uso di ciascun ambiente. La dimora, integra e inserita negli elenchi dei Rolli della Repubblica di Genova, è stata la residenza di Vincenzo Giustiniani-Banca, nato a Chio, in città almeno dal 1546, generale dell’Ordine domenicano dal 1558, cardinale dal 1570 e promotore dell’editio critica degli opera omnia di San Tommaso d’Aquino. Scomparso nel 1582, Vincenzo riposa in Santa Maria sopra Minerva a Roma, nella cappella ornata con la Predica di San Vincenzo Ferrer del genovese Bernardo Castello. Il suo busto, insieme a quello degli altri co-fondatori del più noto ramo romano della famiglia, il cognato Giuseppe e i suoi figli, il cardinale Benedetto e il marchese Vincenzo Giustiniani-Negro, è invece conservato nell’atrio della domus magna dei Giustiniani a Genova. Il dato non deve stupire. Egli fu risolutivo nell’accogliere a Roma Giuseppe, marito della sorella Gerolama, quando, nel 1566, fu costretto a lasciare l’isola di Chio incalzato dai turchi ottomani. L’alto prelato imbastì una rete di protezione che consentì ai suoi parenti di introdursi nella gestione della Depositeria Pontificia e negli ambienti vicini all’oratorio dei Filippini e agli ordini religiosi paupersiti, creando così le condizioni per le scelte artistiche indagate da Silvia Danesi Squarzina. Il quaderno si è rivelato utile per avviare un confronto con alcune delle riflessioni presenti nel Discorso sull’architettura del marchese Vincenzo. I criteri da lui enunciati non potevano non derivare da una conoscenza diretta della situazione locale, a partire dalla villa Giustiniani in Albaro di Galeazzo Alessi, appartenuta ad un terzo ramo della famiglia, quello del committente Luca Giustiniani-Longo sposato con Mariettina Sauli i cui fratelli ingaggiarono l’Alessi per la basilica di Carignano. Uno spazio, la villa di Albaro, dove si manifestò una potente adesione al collezionismo di statue antiche, poi subito esteso alle altre dimore Giustiniani di città, che, sulla scia delle operazioni sviluppate sin dal ‘400 sul mercato dei marmi tra Genova e Chio, sembra anticipare gli interessi dei Giustiniani di Roma.
Il saggio considera la presenza di alcune opere di Orazio Borgianni a Savona, nella Liguria occidentale. In quest’area, tradizionalmente identificata dalla critica come uno dei poli delle cosiddette ‘isole romane’, la testimonianza storicamente più importante afferente il noto artista è fornita dalla pala d’altare con la “Natività della Vergine” nel Santuario di Nostra Signora della Misericordia. Il dipinto - riscoperto per ‘mero caso’ da Roberto Longhi nel 1914 - è tradizionalmente ascritto alla committenza dei Pozzobonelli, famiglia che si rivela un utile tramite per identificare anche altre interessanti evidenze ‘borgiannesche’ nell’area dovute a ulteriori legami con gruppi parentali autoctoni come i Ferreri e i Gavotti. In effetti, questi due casati poterono contare entrambi su ricche collezioni, rispettivamente inventariate nel 1676 e nel 1682. In particolare, la quadreria dei Gavotti vantava una “Nostra Signora con san Giuseppe, Bambino con cornice dorata con una colomba in braccio et altra figura” data al Borgianni. Il dipinto, menzionato nel repertorio del 1682 e riferito all’eredità di Gio Carlo Gavotti, noto per i suoi legami con artisti come Guido Reni e personalità come il cardinale Mazarino, coincide con un esemplare ancora conservato in collezione privata a Savona. Condotto dal Laboratorio Persano&Radelet di Torino, il recente restauro dell’opera - peraltro dotata di una soluzione iconografica di grande fortuna che reinterpreta il motivo della colomba della “Sacra Conversazione” presso la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini - ha rivelato la sigla dell’artista contraddistinta dalle caratteristiche lettere iniziali “OB” sul bastone di san Giuseppe, elemento identificativo invece assente nella versione Koerfer, ma caratterizzante le varianti Longhi (che comprò diversi quadri dai Gavotti) e Hazlitt. Tale circostanza, consente non solo nuove considerazioni di natura attributiva in virtù della valutazione dei dati scaturiti dall’intervento conservativo, ma, soprattutto, permette, avendo sempre come riferimento il manufatto artistico e attraverso il filtro di circostanziate evidenze documentarie, di fare luce su alcune dinamiche artistiche del Seicento (ad esempio sul fronte della ricezione di modelli) nella dimensione larga della Repubblica di Genova. In particolare, l’episodio è una dimostrazione di come la pratica del mecenatismo non fu solo appannaggio del patriziato urbano legato all’ipernodo genovese, ma anche di quei ‘Genovesi fuori di Genova’ che - pur abitando nei domini occidentali dei territori ligustici - colsero al meglio le possibilità offerte dai loro commerci e dalle loro attività finanziarie; una cerchia di ‘virtuosi’ e conoscitori, dunque, che, trasformando capitale economico in capitale simbolico, seppe aprirsi così ad un panorama sovra-locale attraverso opere ‘pubbliche’ e soprattutto private provenienti dal grande emporio romano.
Il case study muove dalla partecipazione di Orlando Grosso, pittore e direttore dell’Ufficio Comunale di Belle Arti a Genova, affiancato da Giuseppe Crosa di Vergagni, architetto, e da Augusto Béguinot, direttore dell’Istituto Botanico Hanbury dell’Università di Genova, alla grande Mostra del Giardino Italiano, allestita da Ugo Ojetti a Firenze nel 1931. Grosso, Crosa di Vergagni e Béguinot inviarono a Palazzo Vecchio dipinti di Alessandro Magnasco e di Luigi Garibbo, disegni di Domenico Parodi e di Paolo Gerolamo Piola, di François Gonin e di Riccardo Lombardo, acquarelli di Francesco Podestà e di Domingo Motta, incisioni di Küssel e di Guidotti, fotografie di Brogi e di Alinari. I diversi materiali – individuati attraverso una sistematica ricerca condotta presso gli Archivi Storici dei Comuni di Genova e di Firenze, del Gabinetto Fotografico del Polo Museale Fiorentino, del Centro Studi della Wolfsoniana e dei Musei di Strada Nuova a Genova – furono accuratamente selezionati per dare vita a una rappresentazione il più possibile completa del giardino in Liguria tra Cinque e Seicento; non solo, le suggestioni iconografiche raccolte servirono poi a Crosa di Vergagni per creare, sempre in occasione della mostra fiorentina, un modello polimaterico o ‘tipo’ di giardino genovese, da inserire nella sequenza di altre nove maquettes che Ojetti e i suoi collaboratori offrirono al pubblico quale “ordinato riassunto dal pompeiano al romantico” del giardino italiano. Il lavoro svolto da Crosa di Vergagni trova riscontro in un ampio numero di suoi progetti per ville e giardini destinati alla classe dirigente genovese: disegni dimostrativi di un approccio aggiornato, in particolare se posto a confronto con quanto stava accadendo negli Stati Uniti, tra il 1922 e il 1932, con le operazioni coordinate dalla landscape architect Beatrix Farrand nella dimora dei Bliss di Washington DC, dove non mancano riferimenti concreti ai saperi del giardino genovese di cui si conserva memoria nel Fondo Farrand della Dumbarton Oaks Research Library and Collection. La partecipazione alla Mostra del 1931 maturò in un contesto culturale estremamente sensibile e ricettivo verso il giardino storico a Genova e in Liguria: infatti, già nei primi due decenni del Novecento, erano stati numerosi gli studi e i contributi dedicati a questo territorio, una letteratura legata non solo a nomi di esperti ‘locali’, come Mario Labò o Antonio Cappellini, ma anche a figure di profilo ‘internazionale’, come il premio Pulitzer Edith Wharton, gli architetti americani John Shepherd e Geoffrey Jellicoe, il garden designer Inigo Triggs, lo storico dell’architettura Arthur Thomas Bolton e molti altri ancora.
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