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Francesco Somaini
Ruolo
Professore Associato
Organizzazione
Università del Salento
Dipartimento
Dipartimento di Storia Società e Studi sull'Uomo
Area Scientifica
Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Settore Scientifico Disciplinare
M-STO/01 - Storia Medievale
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Il saggio indaga sulle ragioni e le conseguenze del tramonto degli stati cittadini in Italia tra XIV e XV; e sul ruolo delle città nella geografia politica che si venne delineando nel Rinascimento. Vengono prese in esame la fine delle città-stato dell'Italia centro-settentrionale, e la realtà delle città dei regni meridionali.
Il saggio analizza il canto VI del Purgatorio di Dante e considera il tema della percezione dantesca della realtà geopolitica peninsulare. Argomentando sul connotato performativo del canto, ne viene proposta anche una puntuale ipotesi di datazione.
Nel Medio Evo (e per vero dire non solo allora) la cattura di un re poteva essere un grosso affare per chi riusciva in simili colpi. Se ne potevano ricavare ingenti riscatti e spesso anche altri importanti vantaggi di natura politica o territoriale. Nel 1435 Filippo Maria Visconti, con la vittoria ottenuta da una sua flotta genovese nella battaglia di Ponza contro Alfonso d’Aragona, riuscì nell’impresa di mettere le mani non solo su uno, ma addirittura su due re: lo stesso Alfonso, che regnava sull’ampia costellazione di regni facenti capo alla corona d’Aragona e il fratello Giovanni, re di Navarra. Nella battaglia finirono anzi catturati più di cento altri importanti principi e baroni provenienti dal Regno di Napoli e dai numerosi altri stati del sistema politico cui Alfonso si trovava a capo. Per la potenza aragonese era di fatto un colpo mortale, mentre il duca di Milano si ritrovò di fronte all’opportunità inopinata non solo di diventare l’arbitro dei destini del Regno di Napoli (conteso fra Alfonso e Renato d’Angiò), ma anche di assicurarsi una cospicua fonte di entrate finanziarie e di imporsi di fatto come il dominus dell’intero scacchiere politico peninsulare. Eppure il duca scelse di liberare i suoi prigionieri senza alcun riscatto e di concludere con Alfonso una strana e frettolosa alleanza (che si rivelò decisiva per risollevare le sorti aragonesi, ma che non parve politicamente troppo utile dal punto di vista visconteo). Il saggio indaga su questa strana vicenda. Se ne analizzano le premesse (le relazioni di Filippo Maria con Angioini ed Aragonesi); se ne ricostruisce lo svolgimento (la battaglia di Ponza e soprattutto gli eventi che ne seguirono) e se ne considerano le conseguenze. Il saggio si conclude con una riflessione sulle ragioni e le modalità di quella svolta politica, che finì oggettivamente per cambiare il corso della storia italiana e in parte anche europea, e che rivelò i limiti e le contraddizioni della visione politica dell’ultimo dei Visconti.
Machiavelli e altri autori rinascimentali pensavano al grande baronaggio del Regno di Napoli della fine del Medio Evo come ad una forza anarchica e turbolenta, priva di ogni reale coscienza politica. Questo assunto ha influenzato diverse generazioni di storici, ma esso risente di alcuni limiti di tipo ideologico. Il primo di questi limiti è l’idea della centralità della Corona, per cui i baroni non sarebbero stati nulla di più che una componente sociale essenzialmente parassitaria. L’articolo, a tale riguardo, è incentrato sulla progettualità politica del Principe di Taranto, e sulla sua capacità di mettere in moto, in concorrenza con la Corona, un serio processo di costruzione statale, mirante ad una sostanziale indipendenza politica. Ciò dimostra come questo grande vassallo possedesse un chiaro progetto politico: il che contraddice l’ipotesi di un cieco e gretto particolarismo. Inoltre, l’insistenza su queste valenze progettuali suggerisce che per comprendere un attore come il principe, occorrerebbe considerare non soltanto il dato della sua condizione giuridica in rapporto al Regno, ma anche il suo proporsi come un possibile fattore di cambiamento costituzionale. Ciò porta a concludere che sul tema della coscienza politica dei baroni Machiavelli era probabilmente in errore.
Gli studi più recenti di geopolitica, come quelli di Yves Lacoste, hanno spesso insistito sul concetto di "geografie motivazionali": cioè su come differenti attori politici (o politico-territoriali) possano percepire i rispettivi contesti spaziali (a differenti livelli di scala) e come essi possano concepire progetti ed idee circa i propri interessi in relazione ai propri spazi d'azione. L'argomento viene trattato con rfierimento alle percezioni dello spazio delle principali potenze italiche alla metà del XV secolo. Il saggio è corredato da un certo numero di mappe atte ad illustrare la complessità della geografia politica italiana del tempo e le differenti rappresentazioni dello spazio peninsulare riconducibili ad attori come la Repubblica di Venezia, il duca di Milano, il re di Napoli, il papa, e via discorrendo). Il confronto tra le differenti geografie motivazionali può condurre a riconoscere le differenti strategie degli attori ed il senso del loro comportamento politico.
Il volume è diviso in due saggi. Il primo affronta la questione della crisi degli stati cittadini italiani alla fine del Medioevo. L’Italia centro-settentrionale, ancora ai primi del Trecento, vantava un ampio numero di città-stato, ma nei due secoli successivi queste scomparvero quasi tutte come soggetti politici autonomi. Alcune (poche) divennero le capitali di più vasti stati regionali, altre semplicemente finirono per perdere la loro indipendenza. Il saggio indaga tempi, modi e cause di questo processo, che venne di fatto cancellando quella che era stata fino ad allora un’originale forma politica tipicamente italiana. Il secondo contributo descrive invece la geografia politica della Penisola tra XV e XVI secolo. Si trattava di una realtà complessa, con attori territoriali di varie dimensioni e di vario peso. Tra soggetti grandi, piccoli e piccolissimi sussistevano legami che davano vita ad un “sistema di stati”. Questo sistema, alla fine del Quattrocento, non resse, invero, alla prova delle pressioni straniere. Ma le Guerre d’Italia che ne seguirono non alterarono in modo sostanziale la geografia politica che gli stati rinascimentali avevano posto in essere, il che ne dimostra, se non altro, la relativa solidità. Il volume è corredato da numerose e innovative mappe a colori, che non solo permettono al lettore di farsi un’idea molto più precisa delle frammentarietà della geografia politica italiana, ma rendono immediatamente visibili le sfere d’influenza e le aree verso cui si appuntavano le aspirazioni egemoniche delle potenze maggiori (tanto italiane quanto straniere).
L’immagine tradizionale che la storiografia ha proposto di Enrico VII di Lussemburgo è quella di un imperatore un po’ ingenuo, astratto e naif proteso velleitariamente a rilanciare, per lo meno in Italia, l’idea universalistica di Impero (pensato come una grande istituzione pacificatrice) senza fare davvero i conti con la realtà ben più concreta delle varie entità territoriali (in lotta tra loro) che ormai dominavano lo scenario della Penisola. Il saggio in questione mette viceversa in evidenza come il progetto politico di Enrico VII, senza rinnegare un forte richiamo all’ideologia universalistica di Impero, fosse in realtà assai meno ingenuo di quanto si è voluto solitamente sostenere. L’idea che animava il sovrano lussemburghese era in realtà quella di rilanciare l’antico Regnum Italicum e di fare di quel Regno ridotto all’evanescenza una struttura politica con una solidità e con una sua capacità di intervento. Il progetto di Enrico VII non era astratto, perchè individuava con precisione un effettivo vuoto politico, e puntava a colmarlo ridando vita ad un’istituzione teoricamente già del tutto legittimata. Le divisioni che laceravano gli stati cittadini italiani sembravano del resto rendere percorribile questa prospettiva, poiché il livello di instabilità cui era giunta la maggior parte dei Comuni italiani pareva condannare i comuni stessi ad una rapida fine. Enrico VII si dedicò al suo progetto con un approccio sistematico, investendo tanto sugli aspetti simbolici (come si vide con l’invenzione di un rituale di incoronazione a Milano) quanto su quelli più propriamente politici (la ricerca di alleanze e di interlocuzioni credibili sia tra le grandi potenze della Cristianità, sia tra i singoli signori e partiti italiani). Né meno serio fu il lavoro di tipo più prettamente istituzionale che venne parallelamente messo in campo: dalla nomina di vicari regi-imperiali al governo di diverse città o aree territoriali, alla convocazione di diete, alla messa in piedi di una cancelleria e di una tesoreria, alla predisposizione di un progetto di unificazione monetaria. La stessa politica di pacificazione, con i provvedimenti a favore del rientro degli esuli nelle rispettive città, più che ad un ingenuo programma irenistico rispondeva in realtà ad un disegno di fondazione di una nuova autorità regia, così come vi rispondevano i provvedimenti estremamente severi che vennero adottati contro chi non si fosse piegato all’autorità del sovrano, o, ancor più contro chi avesse mancato alla parola data. Il progetto di Enrico VII suscitò naturalmente anche delle forti resistenze, e la morte precoce di quel sovrano finì poi per rendere impraticabili i suoi disegni. Ma questo non significa che i progetti che egli aveva immaginato fossero destinati ad essere a priori perdenti.
L'articolo indaga le vicende della Chiesa Milanese tra la metà del XV secolo e i primi decenni del XVI. La ricerca è incentrato su due concetti fondamentali: da un lato quello della forte ingerenza del potere politico degli Sforza (eredi in questo di un'antica tradizione viscontea) sulla vita della Chiesa milanese; dall’altro quello dell'incidenza, non meno rilevante incidenza, degli interventi della Sede Apostolica e della curia romana, tornata, dopo l’età dello Scisma e dopo la stagione della sfida portata al Papato dal movimento conciliare, a rivendicare con successo un ruolo forte di supervisione e di controllo sulla vita delle diverse Chiese locali, e dunque anche sulla Chiesa milanese. Stretta dunque tra queste due differenti forme di interferenza, che talora poterono anche entrare in competizione tra loro, ma che più spesso trovavano modo di coesistere in un sistema informale di compromesso e di co-governance, la Chiesa ambrosiana, secondo una linea di tendenza che fu peraltro comune alla maggior parte delle realtà ecclesiali della Penisola, venne accentuando la tendenza (già manifestatasi nel corso del XIV secolo) verso la perdita della propria antica tradizione di autonomia, che l’aveva spesso contraddistinta nell’età medievale. Il dato più significativo di questa situazione si ebbe nel vistoso appannamento del ruolo degli arcivescovi, Se nel Duecento e nel Trecento, al tempo del loro grande coinvolgimento nelle lotte del Comune, gli arcivescovi milanesi erano stati dei grandi protagonisti anche sul terreno politico, ed avevano, come tali, alternato momenti in cui si erano ritrovati addirittura costretti all’esilio ad altri in cui la loro posizione era giunta a coincidere con quella di signori di Milano (città a sua volta proiettata, a partire dal Trecento, a diventare la capitale di uno Stato regionale in forte espansione), nel corso del Quattrocento e del primo Cinquecento – e dunque in una fase che attraversò per intero l’età sforzesca – si ebbe invece un deciso affievolimento dell’importanza dell’episcopato: non solo in termini di peso politico, ma anche sul piano più strettamente ecclesiastico e pastorale. Possiamo da questo punto di vista parlare di una vera e propria eclissi dell’autorità arcivescovile, di cui il fenomeno dell’assenteismo e della non-residenza dei presuli (spesso residenti in corte di Roma, oppure impegnati come ufficiali al servizio dello Stato) costituì l’aspetto per molti versi più eclatante e vistoso. In conseguenza di questa situazione, la Chiesa milanese si ritrovò dunque ad attraversare una fase particolare delle propria storia: in cui l’assenza di un’affidabile guida pastorale si tradusse indiscutibilmente in una serie di problemi, di abusi e di disfunzioni (su cui sarebbe successivamente dovuta intervenire con vigore la grande opera del Borromeo); ma anche, per certi versi, una fase di vivacità e di spontaneità, in cui – pur nel quadro di quel duplice condizionamento ducale e papale di cui sopra si diceva – si poterono manifestare esperienze di notevole vivacità e vitalità sul terreno della vita religiosa e spirituale, non meno che sul piano dell’organizzazione ecclesiastica, delle attività di predicazione, e delle iniziative devozionali ed assistenziali.
Il saggio indaga su alcuni aspetti della geografia politica dell’Italia rinascimentale. Vengono innanzitutto prese in considerazione le caratteristiche di un sistema politico che a partire per lo meno dalla metà del XV secolo (ma per certi aspetti anche prima) venne trovando una propria stabilità politica interna (l’equilibrio italiano), ma che nel contempo rimase anche connotato da un livello decisamente elevato di frammentazione politico-territoriale. Vengono analizzate le molteplici forme di entità geopolitiche che caratterizzavano lo scenario peninsulare (e anche il loro ben diverso grado di antichità). Vengono considerate le spinte potenti che si riscontrarono, nelle maggiori compagini politiche dell’epoca, in ordine alla creazione di forme di controllo territoriale più capillare e meno frammentario. Ma nel contempo si prendono in esame le vigorose resistenze di tipo particolaristico. Si esamina la condizione di relativa separatezza rispetto all’esterno che caratterizzava il sistema politico italiano nel suo complesso, ma si prendono in considerazione anche i molti rapporti che in realtà legavano quello stesso sistema al mondo esterno. Si affronta il tema della generale carenza di legittimità che sembrava caratterizzare la maggior parte dei potentati italiani del tempo (e degli escamotages con cui i diversi attori politico-territoriali cercavano di ovviare a questo problema). Si analizza la struttura del sistema degli Stati italiani (la sua articolazione per gerarchie interne, la sua divisione per sfere di influenza) e si ragiona sui punti di tensione (crush areas) del sistema stesso. Si ragiona sul problema delle diffidenza e della mancanza di fiducia tra gli attori geopolitici dell’Italia rinascimentale come primo fattore di crisi dell’equilibrio italiano, e si riflette d’altro canto sul fatto che anche dopo gli sconvolgimenti introdotti dal le guerre d’Italia i quadri territoriali di fondo che si erano formati tra tardo Medioevo e Rinascimento avrebbero continuato ancora per diverso tempo a costituire la struttura portante della geografia politica peninsulare. L’aspetto più innovativo ed interessante del saggio è però costituito dal suo ricco apparato cartografico: un complesso di mappe del tutto inedite e mai viste prima, che in buona misura contribuiscono a ridisegnare la geografia politica dell’Italia quattrocentesca, e che per molti versi sconvolgono alcune tradizionale raffigurazioni.
Si tratta della pubblicazione, provvista di breve introduzione, del ciclo di conferenze organizzate dai curatori del volume e tenutesi nel maggio 2013 a Lecce, per la seconda edizione di quella che è storicamente la prima iniziativa di lecturae Dantis sotto egida universitaria nella città salentina. Contiene i contributi di Francesco Somaini («Dante e il quadro politico italiano»), Giaime Rodano («La politica della Chiesa al tempo di Dante»), Marcello Ciccuto («Cortesia e dismisura: i compagni avversi di Brunetto Latini [Inferno XVI]»), Rosario Coluccia («Lettura di Purgatorio XV»), Francesco Tateo («Fato e fortuna in Dante: un percorso didattico nella Commedia»).
Biografia di Francesco Pizolpasso, vescovo di Dax (1423-1423), vescovo di Pavia (1427-1435), arcivescovo di Milano (1435-1443).
Il saggio indaga sui concetti di territorio, territorio e territorializzazione, e sul loro connotato polisemico. Si riflette sull'improponilità delle nozioni stato-centriche e giuspubblicistiche di territorio, secondo cui i territori dovrebbero essere necessariamente concepiti come entità spaziali connotate da continuità, omogeneità e isotropismo. Si sottolinea invece l'opportunità di pensare a più forme possibili di territorializzazione (con territorialità che possono essere anche di tipo aperto, poroso, frastagliato, discontinuo, non difeso, con forme di squeezing o di emboitement, e con confini che possono essere oltre che rigidi e lineari, anche areali o fluttuanti).
Come ha rilevato Warren J. Samuels: “Ideas on the economic role of government have been a major source and a major part of the history of economic thought” (Samuels 2005, p. 393). Di conseguenza, la letteratura su tale tema è sconfinata. Il problema diventa ancora più serio se si tenta di incrociare la riflessione sul rapporto tra Stato ed economia, con quella – altrettanto ampia – relativa al dibattito sulla genesi e sui caratteri del “moderno capitalismo”. L’analisi del rapporto tra Stato ed economia nella fase che portò all’affermazione del modo di produzione capitalistico sembra non avere alcuna autonomia con riferimento all’analisi generale di tale tema. Esso viene interpretato come un aspetto non problematico della visione generale costruita in base ai canoni tardo-ottocenteschi , che accreditano l’idea della divaricazione tra Stato ed economia come un tratto generale del “moderno capitalismo”. Secondo tale visione, Stato e istituzioni svolgono nella genesi e nello sviluppo del capitalismo un ruolo marginale e, in qualche modo, “accidentale”, nel senso hegeliano del termine: “un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile che può non essere allo stesso modo che è” (Hegel 1967, pp. 7-8). In questo contributo, non intendo riflettere sulla vexata quaestio relativa al ruolo dell’intervento pubblico in economia. Ciò su cui intendo richiamare l’attenzione è la scarsa rilevanza interpretativa di questa contrapposizione, specie con riferimento alla nascita del “moderno capitalismo”. Pur non sottovalutando il ruolo del mercato e la “spontaneità” di molti dei fenomeni, che hanno caratterizzato la fase della prima Rivoluzione Industriale, mi sembra utile porre almeno due questioni: 1. le ragioni per cui Smith e gli altri teorici dell’Illuminismo hanno incentrato il loro modello esplicativo sul ruolo del mercato e degli individui; 2. le ragioni per cui Stato e istituzioni politiche non sono oggetto di una riflessione comparabile con quella attribuita al mercato e ai processi di individualizzazione della società dei loro tempi.
Il saggio considera innanzitutto il carattere polisemico die concetti di territorio, territorialità e territorializzazione (rilevando come la pluralità di significati sussista sin dall'origina etimologica della parola latina "territorium"). Successivamente si considera come il concetto di territorialità fosse associato nel Medio Evo all'idea di giurisdizione, il che implicò che divenne normale (in particolare per i giuristi) immaginare che una singola area, potendo essere soggetta a più giurisdizioni, potesse in effetti essere ricompresa in più territori e dunque rimandare a differenti forme di territorialità. Successivamente questa a nozione medievale di territorialità plurime se ne è sostituita una moderna di carattere stato-centrico, per cui il concetto di territorio è stato ricondotto all'idea di una sorta di proiezione spaziale della statualità (e dunque con l'idea di spazi caratterizzati da continuità, omogeneità ed isotropismo). Questa nozione moderna di territorio è divenuta di uso corrente, ma in pone diversi problemi e sarebbe pertanto da abbandonare per tornare all'idea di una grande molteplicità delle possibili forme di territorialità (come suggerito del resto dalle discipline etologiche, biologiche ed etno-antropologiche.
Il saggio descrive le cause e le modalità della crisi degli stati cittadini italiani tra XIV e XV secolo ed analizza la condizione delle città italiane (e dei relativi ceti dirigenti) nel quadro degli Stati regionali formatisi nel suddetto periodo. Si discute inoltre la situazione delle città del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia, sottolineando come la condizione dei centri urbani nell'ambito di questi più antichi stati ad ordinamento monarchico si venne in realtà avvicinando a quella delle città centro-settentrionali, riducendo in questo modo la storica distanza tra la cosiddetta "Italia delle città" e l'area dell'antico "Regnum Siciliae".
The essay is particularly important because it illustrates graphically (with the help of innovative maps) the great territorial fragmentation of the Italian Renaissance states, often very famous in the history of art and culture, but literally very small and with smaller, quasi-independent cities and seigniories within them.
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