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Luisa Maria Sterpeta Derosa
Ruolo
Ricercatore
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI LETTERE LINGUE ARTI ITALIANISTICA E CULTURE COMPARATE
Area Scientifica
AREA 10 - Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Settore Scientifico Disciplinare
L-ART/01 - Storia dell'Arte Medievale
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Nonostante il considerevole numero di studi promossi in occasione dell’ VIII centenario della nascita di Federico II, solo marginalmente è stato affrontato il problema della committenza dei suoi diretti discendenti, in particolare di Manfredi che fu per sedici anni (1250-1266) protagonista della vita politica e culturale della penisola. L’effetto catalizzatore che la potente personalità di Federico II ha esercitato rispetto a tutte le grandi innovazioni, politiche, culturali ed artistiche che hanno caratterizzato il Regno, ha finito per negare al prediletto figlio naturale qualsiasi ruolo nella storia dell’arte dell’Italia meridionale, con la sola eccezione della produzione libraria (codice Vat. Pal. Lat. 1071). Un problema fortemente condizionante è dato dall’esiguità di opere sicuramente databili ai decenni 1250-1266. Lo scopo di questo studio è quello di verificare se si può parlare per questo breve arco cronologico di una produzione artistica di committenza manfrediana (escludendo l’ambito librario), che abbia caratteri di originalità ed autonomia rispetto a quella federiciana. In tale contesto questa ricerca sopperisce alla mancanza di uno studio storico- artistico complessivo e analitico sull’età di Manfredi, che non si limiti al solo studio sulle miniature del De arte venandi cum avibus. o alla generica idea di una continuità di esperienze artistiche al passaggio fra l’età sveva ed i primi decenni di quella angioina. Vengono analizzati alcuni soffitti lignei siciliani (tra le opere sicuramente legate alla committenza manfrediana); le esigue tracce di fondazione della città di Manfredonia (di recente restituita alla più realistica committenza di Manfredi Maletta zio materno dello stesso Manfredi ); ed infine l’architettura castellana, in particolare il castello di Lombardia, la cosidetta Torre di Federico ad Enna, il castello di Lagopesole e la domus di Palazzo San Gervasio in Basilicata. Particolare attenzione viene rivolta alle testimonianze scultoree ed in particolare al tema del ritratto, ambito nel quale matura in età sveva una dimensione dell’operare artistico di carattere europeo. Alla luce di una serie di elementi attentamente sondati vengono analizzati alcuni busti ‘federiciani’, in particolare il noto busto del museo civico di Barletta insieme ad altri due esemplari ad esso collegati dalla critica, di recente esposti alla mostra di Mannheim del 2010/2011. Il quadro che emerge consente di ridefinire la cronologia di questi ultimi due busti in collezione privata e la provenienza di almeno uno di essi, riconoscibile in una vecchia foto del loggiato del rinascimentale Palazzo Vulpano-Sylos a Bitonto. Circa il busto barlettano, attraverso una serie di analisi ed osservazioni che prendono in considerazione tanto il contesto del territorio in cui è stata rinvenuta l’opera quanto alcune fonti cronachistiche medievali e rinascimentali, viene avanzata la proposta che possa trattarsi di un ritratto commissionato dallo stesso Manfredi, nell’ambito di una committenza che, analogamente a quanto accertato nell’ambito degli studi sulla miniatura, coniuga alla rinascita dell’antico istanze di più intenso e patetico naturalismo di matrice gotica europea. Nella parte finale dello studio viene valutato l’impatto di queste novità nell’ambito dell’edilizia sacra, in particolare in relazione a due gruppi plastici sulle testate del transetto della cattedrale di Trani.
Il contributo in esame prende in considerazione un ciclo di affreschi eseguiti da Angelo Solimena per una cappella della chiesa del SS. Salvatore di Calvanico, paese campano conosciuto per la presenza del santuario micaelico di San Michele in Cima. Viene ricostruita la storia della chiesa nel contesto insediato del territorio, identificando le diverse fasi costruttive dell’edificio e le possibili committenze per passare all'analisi della decorazione della volta del cappellone della Madonna del Rosario, costruita come prolungamento del braccio destro del transetto, dove il pittore Angelo Solimena, padre del più celebre Francesco, interviene nel 1669. L’artista realizza un complesso programma iconografico incentrato sull’esaltazione del ruolo della Vergine nella storia della salvezza attraverso episodi della sua vita accompagnati da una serie di iscrizioni tratte dalle Laudi e dall’Antico Testamento che sottolineano il ruolo di Maria come madre di Cristo. Ai lati delle singole scene otto figure di sante martiri, che incarnano le virtù di Maria, celebrano la Vergine quale regina martirum. Delle figure delle sante sono identificate iconografia e fonti agiografiche, ispirate agli antichi Martirologi che riletti e riportati in auge tra XVI e XVII secolo (è del 1586 l’edizione commentata del Martyrologium romanum del Baronio) riflettono il principio teologico generatore della storia tipico del pensiero riformista. L’ultima parte del contributo si rivolge ad analizzare le fonti pittoriche ed i modelli culturali del pittore, che traduce nelle sue opere aspetti devozionali improntati ad un profondo rigorismo morale. Allievo del celebre pittore solofrano Francesco Guarino, Angelo Solimena rappresenta, nell’ambito del naturalismo seicentesco meridionale, un autentico interprete delle istanze affermatesi nella capitale partenopea nella prima metà del secolo e rivisitate a partire dalla fine degli anni ’60 alla luce delle esperienze di schietta matrice classicista. Nel ciclo di Calvanico Solimena sperimenta per la prima volta la tecnica dell’affresco: da questa esperienza è probabile che il pittore si sia affermato anche come frescante, impegnandosi successivamente nelle più importanti imprese di Salerno, di Nocera e di Sarni. Il pittore era dotato, secondo quanto narrano fonti a lui contemporanee, anche di una certa cultura letteraria, che gli consentiva di frequentare accademie letterarie come quella dei Famelici di Gravina (mentre era impegnato nell’impresa della cappella del Purgatorio),dove probabilmente conobbe il duca di Gravina, Vincenzo Maria Orsini, del ramo di Solofra, futuro papa Benedetto XIII, legandosi ai circoli culturali promossi dagli Orsini e soprattutto all’erudito Pompeo Sarnelli il più autentico e fedele interprete del pensiero dell’Orsini, ed autore, tra l’altro, di uno sterminato epistolario dal titolo Lettere ecclesistiche, tra cui figura anche una lettera al Solimena stesso. Attraverso l’analisi di questi testi può affermarsi che a Calvanico Solimena traduce in immagini il pensiero riformatore dell’Orsini, che già da lungo tempo aveva avuto modo di conoscere e di approfondire.
Il contributo analizza le vicende costruttive di un grande complesso edilizio medievale, vero e proprio palinsesto in cui si riflettono non solo le vicende dell’importante e numeroso gruppo famigliare dei Della Marra, che ne fu committente, quanto di una parte della storia stessa della città. Noto alla critica internazionale dalla fine dell’Ottocento, per il lungo porticato a pianterreno e per l’articolazione del prospetto esterno è stato giudicato un raro esempio dell’influenza che l’architettura cistercense avrebbe esercitato nell’ambito dell’edilizia privata. L’analisi delle testimonianze medievali emerse nel corso dell’ultimo restauro, mai completato, oltre a riportare alla luce molte delle strutture originarie, eliminando antiche e recenti superfetazioni e privando i muri degli intonaci che li ricoprivano, ha evidenziato le molteplici e complesse fasi costruttive dell’edificio. All’esigua bibliografia critica si contrappone il considerevole numero di documenti d’archivio, prevalentemente inediti, che hanno supportato la ricerca consentendo di ricavare notizie fondamentali per la ricostruzione delle vicende conservative del complesso. All’analisi delle strutture architettoniche, dei materiali edilizi e delle tradizioni costruttive, nonchè della decorazione scultorea (prevalentemente medievale), si è affiancata una ricerca sulle insegne araldiche che ancora si trovano in situ, mai identificate, che hanno consentito di riconoscere anche alcune singole committenze. Tra tutte quella importante di Giozzolino Della Marra, già familiare del re sotto Manfredi, e maestro razionale della curia di Carlo I, il quale attraverso la costruzione del proprio palazzo e l’ostentazione delle insegne araldiche opera una sorta di ‘infeudamento’ dell’area urbana che costituiva il centro economico-finanziario della città . L’attuale complesso, che occupa una vasta area grossomodo di forma trapezoidale, è risultato essere frutto dell’aggregazione di più corpi di fabbrica di tipo edilizio a schiera, attraversati da due antiche strade porticate, databili tra la fine del XIII secolo ed i primi decenni del XIV. Un’ultima parte della ricerca ha riguardato l’analisi ed il confronto con altri edifici privati di area meridionale, considerando le diverse fasi di trasformazione ed il tipo di modifiche apportate nel campo dell’edilizia palaziata.
Nel palazzo arcivescovile di Oria si conservano due esemplari di leoni stilofori eseguiti in marmo proconnesio che facevano parte dell'antica cattedrale medievale della città, non più esistente. Questi leoni , insieme ad altri numerosi esemplari conservati in Puglia, fanno parte di quelle particolari strutture architettoniche anteposte ai portali, chiamate protiri, sulla cui origine e sviluppo si è molto discusso in sede critica, sostanzialmente attribuendo all’area padano-emiliana la maggiore diffusione ed elaborazione del tema. La precoce affermazione di questo elemento inella regione, la sua formulazione architettonica sostanzialmente diversa rispetto ai modelli padano-emiliani generalmente definiti “lombardi”. la quantità elevata di esempi e testimonianze superstiti , ha di recente stimolato un processo di riflessione e revisione critica del problema, dalla quale emerge il carattere singolare e autonomo della produzione pugliese rispetto ad altre aree regionali. In questo studio vengono analizzate le varie problematiche relative all'affermazione di questo tema, anche in considerazione della storia dell'edificio medievale da cui provengono, di cui sono analizzate anche le restanti testimonianze frammentarie superstiti.
La mostra "Arte in Puglia dal Medioevo al Settecento", ospitata nel Museo Civico di Foggia, ma con sedi decentrate nelle pinacoteche provinciali di Barie di Lecce, nella basilica nicolaiana di Bari e nella sezione ebraica del museo diocesano di Trani, si riallaccia alla mostra del 1964 organizzata da Michele D'Elia dal titolo "Arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò", che ebbe il merito di mostrare al grande pubblico il considerevole patrimonio artistico della Puglia con l'esposizione di opere in gran parte inedite e distribuite in iun lungo arco cronologico, .Da quel momento grazie all'interesse suscitato , una serie di studi hanno consentito di conoscere meglio quel patrimonio e di valorizzarlo, dando spessore alla storia di una regione luogo di straordinarie sintesi culturali. Le schede realizzate nel catalogo fanno parte della sezione del romanico, curata da Pina Belli D'Elia, Tra queste quella dedicata all'oliante in avorio del British Museum di Londra ha inteso fare il punto fare il punto sugli studi che si sono succeduti negli oltre quarant'anni che separano le due mostre. Vengono messe in evidenza nella scheda le relazioni con la scultura pugliese di XI secolo costantemente oscillante tra Bisanzio e l'Islam ed allusiva, sul piano stilistico, all'intaglio eburneo.
I capitelli che decorano il mausoleo di Boemondo a Canosa non sono mai stati oggetto di una sistematica e puntuale analisi, se non per quanto riguarda il consapevole recupero di componenti antiche, di ispirazione romana e bizantina (Patrizio Pensabene), o l'affiorare di elementi attribuibili alla prima scultura di età normanna (Valentino Pace), al contrario dell'architettura del piccolo tempio marmoreo e della problematica porta bronzea che ne chiude l'accesso. In questo contributo è preso in considerazione l'intero corredo scultoreo, tanto esterno quanto interno, allo scopo di identificare maestranze e modelli , analizzare i materiali di reimpiego e puntualizzare i dati cronologici. Il quadro che emerge mostra quanto il medium della scultura, in conseguenza dei nuovi assetti istituzionali derivati dalla Conquista, registra l'immissione di forme plastiche nuove difficilmente spiegabili escludendo le regioni d'origine dei Normanni che andarono ad innestarsi su un persistente substrato di cultura classica, tardoantica e longobarda. Una parte della ricerca si è anche orientata ad analizzare la documentazione relativa ai restauri del secolo scorso, in parte inedita, utile per valutare la decorazione scultore del cupolino , distinguendo gli elementi frutto di restauro.
La presentazione del volume di Teresa De Francesco, Uomini e istituzioni culturali in Terra di Bari fra XIX e XX secolo, è stata l'occasione per riflettere su un periodo di fondamentale importanza per l’intera regione, nato dal recupero della memoria del passato, che ebbe come principale effetto la creazione di una nuova identità culturale e storica. Sono passate in rassegna le principali tematiche attorno alle quali si è sviluppata fino ad oggi la ricerca storica e storico-artistica e si individuano nuovi nuclei tematici intorno a cui sviluppare ricerche future.
Nel contributo si traccia un profilo dello stato degli studi sulla Basilicata medievale considerando le fonti visivo–oggettuali . In un contesto estremamente articolato, è analizzata la produzione artistica dei centri di Venosa, Lagopesole Melfi e Acerenza, luoghi per eccellenza della ‘trasmigrazione’ di idee e modelli estranei alle tradizioni locali, in funzione del nuovo corso impresso alla situazione meridionale dalla nuovissima alleanza tra la chiesa della Riforma e i dominatori normanni. Legato alla cultura di questi luoghi è Sarolo, un artista residente a Muro Lucano a capo di una bottega in cui lavora con il fratello Ruggero, con il quale rma nel 1197 il portale di Pierno vicino a San Fele – una chiesa di pellegrinaggio sorta nelle vicinanze della via Herculea – e nel 1209 uno dei due bassorilievi della cattedrale di Rapolla, raf guranti rispettivamente Adamo ed Eva e una Annunciazione Sarolo a partire dal Bertaux è stato considerato da parte della critica del Novecento – nel tentativo di definire per il periodo medievale una realtà artistica autoctona della regione – l’autore di molte opere tra cui lo stesso portale della cattedrale di Acerenza. Su questo artista e sulla sua produzione si propone una diversa lettura che analizza nel dettaglio le opere da lui firmate, i modelli culturali ed artistici, i rapporti con la committenza, il ruolo nei diversi cantieri, identificando nell’ecclettismo della sua produzione la motivazione delle numerose attribuzioni. Nella stessa rea geografica, sul versante della produzione pittorica sono presi in considerazione gli affreschi della cappella del castello di Lagopesole, sui quali, diveramente dai casi analizzati in precedenza, pochi sono gli interventi critici su queste pitture, di una qualità non particolarmente eccelsa anche a causa del pessimo stato di conservazione in cui ci sono giunti. L’interesse nei confronti di queste testimonianze nasce dall’incertezza della cronologia e dalla enigmatica presenza di un pannello votivo raffigurante un cavaliere ed una dinanzi a un grande stemma d’azzurro alla croce d’argento caricata di cinque conchiglie di San Giacomo di rosso. La cosa che colpisce di questi affreschi è la loro presenza nell’ambito di una cappella destinata a un imperatore prima, Federico II, e a un sovrano poi, ovvero Carlo I d’Angiò. Attraverso l’analisi delle fasi costruttive di questa zona del castello, del valore dello stesso pannello votivo e dello stilem delle pitture gli affreschi sono attribuiti ad una bottega certamente non degna di una committenza imperiale, ma la cui presenza ricopre un ruolo molto più importante delle capacità artistiche dei suoi pittori, dal momento che potrebbe rappresentare l’unica testimonianza certa di una fase della vita del castello fino ad ora solo ipotizzata, perché celata dalle tante trasformazioni e rimaneggiamenti avvenuti proprio a partire dagli anni Quaranta del XIII secolo.
Nel presente contributo si analizza il ruolo che le fonti visivo-oggettuali hanno svolto nell'ambito dei Convegni Internazionali organizzati dal Centro Studi normanno-svevi dell'Università degli Studi di Bari. L'ambito di indagine è relativo ai quarant'anni di attività del Centro e ripercorre, da un punto di vista storiografico, i numerosi contributi offerti dagli storici dell'arte alle Giornate, le tematiche affrontate e le differenti posizioni critiche nell'ambito del contesto nazionale ed internazionale. Sulla scia di importanti riflessioni storiografiche avviate in Italia nell’ultimo decennio attraverso I Convegni di Parma o le giornate di studio dedicate ad Adolfo Venturi nel 2006, per citare qualche esempio, il presente contributo ricostruisce, per la prima volta, la storia che le discipline artistiche hanno avuto a partire dalla fondazione della Facoltà di Lettere e Filosofia nell’Ateneo barese ed i rapporti avviati con le istituzioni museali presenti sul territorio e gli organi preposti alla tutela ed alla conservazione del patrimonio storico-artistico della regione. Rapporti complessi, analizzati in relazione al contesto nazionale ed internazionale, attraverso la storia degli studi, le mostre ed i restauri a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Il quadro che emerge per il settore storico-artistico è quello di una realtà in cui l’aggiornamento dei modelli interpretativi avviene in contesti diversi da quelli canonici delle istituzioni universitarie e dei centri di studio ad essa legati.
La chiesa di Santa Maria la Nova, fondata intorno al XIII secolo, fu la prima costruzione extra moenia a sorgere sul pianoro dei Sasso Barisano, lungo la direttrice che metteva in comunicazione la città con i vicini nuclei urbani pugliesi. Oggi intitolato a San Giovanni, l’edificio è noto agli studi per essere, insieme alla coeva cattedrale, una delle poche testimonianze dell’architettura medievale sub divo materana. La fabbrica presenta a livello di forme architettoniche linguaggi profondamente diversi, soprattutto tra l’involucro esterno, compatto, ritmato da arcate cieche su paraste con un ricco apparato scultoreo che si distribuisce su portali e finestre e lo spazio interno, arioso impianto basilicale con colonne , coperto a capriate con cupola all’incrocio. La sua fama si deve al leggendario e intricato arrivo a Matera, nel 1231, di un gruppo di monache Penitenti provenienti da Accon in Palestina. Il contributo in esame si inserisce in un volume monografico pubblicato nella collana di studi “Vita regularis. Ordnungen und Deutungen religiosen Lebens im Mittelalter” fondata da Gert Melville, dedicato interamente allo studio della chiesa materana attraverso le testimonianze documentarie, storiche, archeologiche ed artistiche. Lo scopo è stato quello di indagare la facies medievale della fabbrica, in una prospettiva che includesse il rapporto con l'Oriente, terra di provenienza del primo nucleo di religiose, e il contesto pugliese, al cui interno Matera si collocava. A tal fine è stato necessario ricostruire le vicende storiche e storiografiche della chiesa a partire dalla sua fondazione fino ai restauri ed alle indagini archeologiche del secolo scorso, ricerche solo parzialmente edite; analizzare e distinguere le varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli sia per quanto riguarda l'assetto architettonico che per la decorazione scultorea; operare una lettura che tenesse conto degli elementi strutturali e della scultura architettonica, dei differenti modelli, delle concezioni dello spazio architettonico e dell’uso degli spazi liturgici; descrivere ed analizzare nel dettaglio l’ornamentazione . Gli studi condotti fino ad oggi sul monumento hanno indagato quasi esclusivamente l’apparato scultoreo della chiesa, legandolo ad una generica matrice orientale di forme e modelli rielaborati nel contesto della cultura della Terra d’Otranto, mentre sul versante dell’architettura è stato posto l’accento su influenze derivate dall’architettura borgognona, da quella siciliana, abruzzese e pugliese, senza discostarsi di molto dalla lettura che già il Bertaux aveva fatto dell’edificio nel 1903. Il risultato raggiunto dalla ricerca è stato, sul versante dell’architettura, quello di una nuova lettura dell’edificio che ha individuato l’esistenza di due cantieri che, in relazione alle esigenze della committenza, si sono succeduti nel giro di pochi decenni operando separatamente sul corpo della navata e nella zona del transetto, con il risultato della di una sorta di doppia polarità dello spazio in funzione, da un lato, delle adiacenti fabbriche monastiche e dall’altro della città, attraverso la monumentalizzazione di quelle parti dell’edificio rivolte verso la civita materana. Tale lettura spiega anche la distribuzione degli spazi superiori dell’edificio, interamente percorribile tramite scale e ballatoi che mettono in comunicazione l’interno dell’edificio con l’esterno. L’analisi dei documenti ha consentito di precisare meglio la cronologia della chiesa e di individuare nella figura del procuratore dell’ordine materano, Melo Spano, colui che fu investito del compito di seguire ed amministrare il secondo cantiere della chiesa . Sono stati analizzati anche i materiali utilizzati nella costruzione dell’edificio ed il modo con il quale sono stati messi in opera: in relazione agli altri coevi cantieri materani di ambito rupestr
Il volume intende rendere omaggio ad una grande studiosa dell'Università di Bari, Pina Belli D'Elia, i cui studi hanno segnato le tappe fondamentali del processo di revisione critica dell'arte dell'Italia meridionale e della Puglia in particolare dal Medioevo fino all'età contemporanea. La partecipazione di numerosi autori appartenenti alle principali università italiane e straniere segna, con contributi che spaziano lungo un ampio arco cronologico, una tappa significativa di aggiornamento delle principali tematiche oggetto degli studi della festeggiata
Oggetto di studio è una scultura in pietra reimpiegata come acroterio su una delle piramidi di copertura della chiesa di Santa Maria Maggiore a Barletta. Traduzione di una tipologia compositiva ispirata ad opere gotiche francesi, la scultura in esame - databile entro la prima metà del XIV secolo - attraverso una serie di confronti che spaziano dalla scultura in avorio, all’oreficeria, alla scultura lignea, mostra come la città costiera era inserita in epoca angioina nell’ambito di un circuito di committenza colto. Questo grazie soprattutto ai rapporti di familiaritas che l’aristocrazia locale aveva instaurato con i sovrani angioin, che costituiranno un fattore di grande sviluppo, anche sociale, per tutto il XIV secoloi. In tale contesto, ed in relazione alla fabbrica della chiesa, oggetto tra XIII e XIV secolo di una vasta opera di ampliamento e ammodernamento delle strutture romaniche, determinante fu la committenza di uno dei cittadini più illustri, Giovanni Pipino, consigliere di Carlo II nonché autore della depopulatio saracena della città di Lucera. Attraverso le vicende della chiesa si avanzano alcune ipotesi relative al contesto ed alla collocazione originaria della statua, la cui iconografia sottolinea il ruolo della Vergine quale protettrice della chiesa, manifestazione visibile della comunità ecclesiale nonché simbolo di una rinnovata alleanza tra il clero, la comunità cittadina e l’Università. I rapporti con la cultura di corte e le significative aperture nei confronti delle novità elaborate in area centro-italiana fanno di questa piccola scultura un importante testimonianza della rielaborazione nel Regno di esperienze artistiche elaborate nella capitale.
Nella collezione di disegni di Aubin-Louis Millin (1759-1818) della Bibliothèque nazionale de France, si conserva una inedita riproduzione di un sarcofago conservato un tempo nella chiesa della SS. Trinità di Venosa ed oggi scomparso. L’edificio venosino, come è noto, deve la sua fama principalmente al fatto di essere stato scelto quale luogo di sepoltura dei figli di Tancredi d’Altavilla, i primi conquistatori normanni dell’Italia meridionale e, infine, di Roberto il Guiscardo, regista e attore delle vicende che portarono alla trasformazione del piccolo cenobio benedettino in una delle più grandi abbazie del Mezzogiorno Le uniche notizie dell’esistenza di questo sarcofago, «regardé comme le tombeau d’une fille de Robert Guiscard à Venosa», si devono ad alcune lettere di Millin stesso, che ripercorrono le tappe salienti del suo viaggio in Italia, descrivono l’opera, oltre a disegnarla. Partendo dall’analisi del disegno si cerca di contestualizzare l’opera e di inserirla nelle lunghe e complesse vicende relative alla chiesa di Venosa ed alla grande chiesa incompiuta che si erge alle sue spalle. Vengono presi in considerazione i sepolcri superstiti conservati nella chiesa e la loro attribuzione a personaggi della famiglia degli Altavilla, ripercorrendo in maniera critica le varie fasi di vita della chiesa e di conseguenza le numerose trasformazioni e gli interventi di restauro antichi e moderni che hanno condizionato la memoria delle stesse tombe. Infine si pone l’attenzione su una serie di vicende, relative al destino delle figlie del Guiscardo, dimenticate dalle fonti perché la memoria selettiva di quel passato non ha ritenuto necessario conservarle.
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