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Concetta Maria Nanna
Ruolo
Professore Ordinario
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO JONICO IN "SISTEMI GIURIDICI ED ECONOMICI DEL MEDITERRANEO: societa', ambiente,culture
Area Scientifica
AREA 12 - Scienze giuridiche
Settore Scientifico Disciplinare
IUS/01 - Diritto Privato
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Nel presente lavoro, l’a. ricostruisce la figura del diritto di accesso, secondo un’interpretazione evolutiva e sistematica della normativa vigente, anche in considerazione del dettato costituzionale e comunitario. L’indagine si svolge alla luce della recente interpretazione della Suprema Corte del rapporto tra privacy e diritto di accesso, non tanto e non solo per soffermarsi sul problema pratico relativo all’individuazione e “delimitazione temporale” dello spatium deliberandi, in merito al “pronto riscontro” del titolare del trattamento dei dati personali, quanto per approfondire la stessa natura e funzione del diritto di accesso. Dopo un riepilogo storico e comparatistico in tema di diritto alla riservatezza, è analizzato il contributo della dottrina e giurisprudenza attuale – sia nazionale che comunitaria, con particolare attenzione ai provvedimenti del Garante – in merito al diritto di accesso. Ciò in considerazione della opportunità di un “raffronto” tra il diritto alla privacy ed il diritto di accesso: tale scelta risulta, peraltro, quasi “obbligatoria” per superare l’atteggiamento di parte della dottrina, che nega al diritto di accesso stesso ed agli altri diritti, previsti dall’art. 7 d.lgs. 196/2003, natura giuridica di “diritti soggettivi” e li inquadra come “mezzi di tutela”, e quindi come meri strumenti finalizzati al soddisfacimento di un valore “diverso”, quale il diritto alla riservatezza (che quindi sarebbe l’“unico diritto soggettivo tutelato”). Nel presente lavoro, invece, sulla base di un’interpretazione evolutiva, si afferma che il diritto di accesso costituisca il “lato dinamico” dello stesso diritto alla riservatezza, che rappresenterebbe il “dato statico”. In tal senso, il diritto alla riservatezza, se non si “esprimesse” in modalità operative, si configurerebbe come una mera “petizione di principio”; resterebbe, quindi, affermata la sua rilevanza, ma il diritto sarebbe – per così dire – “sguarnito” di tutela. Il diritto di accesso, invece, costituirebbe l’esplicazione dinamica della riservatezza, oltre a rappresentare, innegabilmente, anche il mezzo, legislativamente individuato, per garantire l’effettività della sua tutela
Il lavoro si occupa dell’annoso e rilevante problema della ripetibilità degli interessi anatocistici e del termine per la prescrizione dell’azione di ripetizione di indebito. Lo studio si sofferma su un aspetto che la prevalente dottrina civilistica ha forse un po' "trascurato", e cioè quello relativo alla natura giuridica delle annotazioni in conto corrente bancario, periodicamente effettuate dalle banche. Infatti, a seconda che si neghi o si ammetta la funzione solutoria di tali annotazioni, le conseguenze in merito alla ripetibilità degli interessi composti si rivelano profondamente diverse, sia relativamente all'individuazione della natura giuridica dell'azione restitutoria, sia per quanto riguarda il dies a quo dell'azione stessa, sia infine in merito al quantum delle somme ripetibili. Lo studio mostra di distanziarsi anche dalle argomentazioni a cui era pervenuta la dottrina commercialistica, giunta talvolta a conseguenze "estreme", privilegiando spesso soluzioni che non mostravano di garantire appieno una (almeno) tendenziale parità di trattamento tra le parti; ed è stata seguita dalle stesse Sezioni Unite della Suprema Corte, per quanto la sentenza perda un po' della sua incisività, laddove si sofferma – forse un po' forzatamente - sulla distinzione tra atti di pagamento ed atti ripristinatori della provvista. La soluzione adottata nel lavoro consente, invece, di privilegiare un'impostazione di potenziale equilibrio tra le parti, al fine di ristabilire l’asimmetria contrattuale tra le parti
In tale lavoro, dopo aver chiarito e risolto alcuni “equivoci concettuali” talvolta evidenziati dall’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, basati sull’erronea convinzione secondo la quale i coniugi non potrebbero stipulare tra loro veri e propri contratti, ma solo “convenzioni”, dall’incerta natura giuridica, ed aver invece dimostrato la natura squisitamente contrattuale degli accordi diretti a regolare la vita familiare, si afferma la conseguente natura irrevocabile del consenso prestato da ciascun coniuge alla separazione, anche qualora lo “jus poenitendi” sia esercitato prima dell’omologazione giudiziale. Ciò perché la natura contrattuale dell’accordo coniugale renderebbe impossibile recedere dal contratto, in mancanza di un nuovo accordo contrario delle due parti; né tale irrevocabilità potrebbe essere ritenuta lesiva del carattere “pubblicistico” della famiglia, e della sua funzione sociale, nel più ampio contesto statale. Infatti, la disciplina contrattuale è ormai diretta a proteggere i diritti della parte debole ed a garantire anche la piena dignità della persona, oltre che limitarsi a regolare gli aspetti patrimoniali; pertanto, non sembra più ammissibile giustificare e prevedere una disciplina “differenziata” e “specialistica” degli istituti familiari, che non potrebbero così derogare in modo irragionevole ai principi fondamentali, stabiliti in materia contrattuale. Sembra così corretto ritenere che il consenso prestato da ciascun coniuge per la separazione e per il divorzio non sia più revocabile, dopo la sottoscrizione dell’accordo di separazione. Tali considerazioni sarebbero, peraltro, confermate dall’interpretazione evolutiva e sistematica della normativa processuale; conseguentemente, il consenso non sarebbe revocabile né espressamente né “tacitamente”, con la mancata costituzione di una delle parti in giudizio, potendo il giudice della separazione procedere nel giudizio anche in assenza del convenuto, e quindi in mancanza della verbalizzazione del consenso, ormai “cristallizzato” nell’accordo, per il quale è stato depositato il relativo ricorso
Nel presente lavoro monografico, l’a., analizzando e rielaborando la teoria dei doveri “di status”, afferma che la normativa consumeristica potrebbe costituire, più che un apporto teorico – pratico idoneo a “rileggere” la teoria dell’obbligazione senza prestazione, una disciplina che confermerebbe la tesi stessa, e ne garantirebbe un nuovo “supporto normativo”, nell’ottica di una doverosa interpretazione evolutiva. L’utilità non sarebbe meramente classificatoria e sistematica, ma anche pratica, consentendo, in tutte le ipotesi di “doveri di protezione”, l’applicabilità della normativa a tutela del consumatore, che prevede, ad esempio, obblighi informativi gravosi, a carico del professionista, ed – in generale – una tutela “rafforzata”, rispetto a quella codicistica, già in ambito precontrattuale, a vantaggio dell’utente/consumatore. Né potrebbe omettersi il rilievo di conseguenze di tipo processuale, come la possibilità di riconoscere il foro speciale del consumatore, come è stato anche recentemente ammesso dalla Suprema Corte, a proposito della categoria dei medici e degli avvocati. Inoltre, l’applicazione della normativa consumeristica consentirebbe di superare l’obiezione secondo la quale la responsabilità precontrattuale, collegandosi “necessariamente” alla stipula di un contratto futuro, non potrebbe costituire la base normativa della teoria. Si afferma, inoltre, come ulteriore conseguenza, che la norma di cui all’art. 1337 c.c. non consentirebbe di giustificare un richiamo alla professionalità dell’autore del danno. A ciò, in aggiunta alle condivisibili obiezioni, che vengono già mosse dai sostenitori della teoria dell’obbligazione senza prestazione, si potrebbe replicare anche che, allo stato attuale, parrebbe possibile rinvenire, nell’ordinamento, “nuove” fonti normative, che potrebbero costituire un ulteriore riferimento per la teoria suindicata. Esse sarebbero rappresentate dalla disciplina prevista dal codice del consumo ed, in particolare, dall’art. 2, in materia di diritti “fondamentali” del consumatore. Tale norma si applica anche alla figura del “libero professionista” e prevede una tutela “globale” del consumatore, sin dal primo contatto (qualificato) con il professionista: conseguentemente, il consumatore stesso è tutelato pienamente, ed ha diritto ad essere salvaguardato nei propri interessi, indipendentemente da un contratto e da un obbligo di prestazione. In questo senso, l’art. 2 cod. cons. ben potrebbe essere letto in combinato disposto con l’art. 1173 c.c.: l’accostarsi di un cliente/consumatore ad un servizio professionale costituirebbe, così, quel fatto o atto, idoneo a produrre obbligazioni, di tipo “protettivo”, e ad ingenerare responsabilità, nell’ipotesi di violazione degli obblighi di protezione stessi. L’utilizzo del collegamento tra art. 2 cod. cons. ed art. 1173 c.c., che andrebbe non già a sostituire, ma ad “affiancarsi” a quello, già sostenuto dalla dottrina, tra l’art. 1137 e 1173 c.c., consentirebbe così in modo esauriente e “definitivo”, il superamento dell’obiezione relativa alla presunta mancanza di un collegamento tra la teoria dell’obbligazione senza prestazione e gli status professionali. Se, infatti, nell’ambito di un “contatto sociale”, il danneggiato va inquadrato nell’ottica di un cliente/“consumatore” che si accosta ad un servizio ed, in quanto tale, merita tutela, fin dal primo momento, in cui si è creato il contatto qualificato, indipendentemente dalla stipula di un contratto, non potrebbe negarsi che l’autore del danno sia un “professionista”, in quanto tale appartenente ad uno “status”, obbligato al rispetto di precisi e penetranti doveri di comportamento, permeati e qualificati dalla buona fede. La teoria dell’obbligazione senza prestazione, pertanto, troverebbe
Negli ultimi anni, la dottrina e la giurisprudenza si stanno mostrando sempre più sensibili ed attente verso fenomeni di squilibrio contrattuale. In tali ipotesi, in verità molto frequenti, il legislatore è spesso intervenuto, specialmente in materia di contratti del consumatore o del piccolo professionista, per arginare lo strapotere della parte più forte, di fronte a quella più debole. Tuttavia, tali interventi legislativi, pur significativi, non hanno esaurito il problema, poiché, nei contratti tra parti dotate presuntivamente di uguale potere contrattuale, il giudice non potrebbe quasi mai intervenire, correggendo il contratto, laddove vi siano anche macroscopiche sproporzioni tra le prestazioni. Si è posto così, in dottrina, il problema della “giustizia del contratto”, che non può rimanere solo teorico, ma deve portare a conseguenze concrete nei giudizi che si instaurano tra le parti in conflitto. Da tale punto di vista, c’è da chiedersi se, ed in che modo, il giudice possa intervenire per ristabilire l’equilibrio del contratto, agendo, se del caso, anche d’ufficio. Nel lavoro monografico, che mira a trovare delle possibili risposte al quesito enunciato, grande importanza riveste l’istituto dell’integrazione contrattuale, specie quella giudiziale. Dopo un’approfondita indagine sull’istituto dell’ integrazione, e grazie a preziosi spunti comparatistici tra il nostro sistema giuridico e quello di common law, apparentemente molto “distante” da quello italiano, lo studio si sofferma sul ruolo del principio di buona fede ex art. 1375 c.c., in rapporto all’equità, ex art. 1374 c.c., ed al principio di proporzionalità. I tre principi vengono esaminati, in quanto “potenziali” fonti integrative del contratto, ad opera del potere “creativo” del giudice, anche grazie all’ analisi della giurisprudenza straniera e comunitaria. L’individuazione delle ipotesi tipiche di intervento legislativo e giurisprudenziale, che ha talvolta autorizzato il giudice alla correzione del contratto, consente di superare “antichi” dogmi, quali quello dell’autonomia contrattuale e quello, più risalente, della “volontà” e della “sacertà” del contratto; appare, inoltre possibile, allo stato attuale, ritenere che i principi di buona fede, equità e proporzionalità, ciascuno nel proprio “ambito”, possano essere impiegati dal giudice per riequilibrare contrattazioni sbilanciate, e ristabilire la simmetria negoziale tra le parti, senza che ciò leda l’autonomia contrattuale, anche alla luce delle fondamentali norme della Carta costituzionale.
Le note sentenze “gemelle” dell’11 novembre 2008, pronunciate dalla Suprema Corte a Sezioni Unite hanno riproposto un tema di grande attualità e rilevanza giuridica, quale quello della risarcibilità del danno non patrimoniale. Le Sezioni Unite, dopo aver negato l’ammissibilità del c.d. danno esistenziale, al fine pratico di arginare il fenomeno della proliferazione di danni risarcibili, anche in ipotesi “del tutto risibili”, hanno affermato che nella categoria del danno morale possa senz’altro comprendersi ogni sofferenza non patrimoniale –anche ti tipo esistenziale – che, come tale, dovrà essere risarcita, purché derivi dalla violazione di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito. Lo studio si sofferma, inoltre, sul rapporto tra l’art. 2043 e l’art. 2059 c.c., e sull’assunta “tipicità” del danno non patrimoniale, in rapporto all’atipicità del danno ingiusto, ex art. 2043 c.c.: nonostante le critiche dottrinali su quest’impostazione della Cassazione, si dimostra che è sempre consentito risarcire il danno non patrimoniale, grazie ad una corretta interpretazione storico – evolutiva dell’ art. 2 Cost., quale “norma aperta”, non contenente un “elenco” predefinito di possibili violazioni alla persona. Dopo aver esaminato la delicata questione della risarcibilità dei “danni bagatellari”, in rapporto al “dovere di tolleranza” ed alla “serietà del danno e gravità dell’offesa”, ed aver ritenuto che il criterio della “coscienza morale di un popolo in un determinato momento storico” possa costituire una base teorica maggiormente persuasiva ed efficace, ci si sofferma sulla questione dell’unitarietà del danno non patrimoniale. A tal proposito, si nega che i pregiudizi (biologici, morali, ecc) siano mere “voci descrittive” del danno, e che il danno morale sarebbe conseguentemente “scomparso”, e si sostiene che le Sezioni Unite abbiano solo voluto impedire, da un lato, ingiustificate duplicazioni risarcitorie, e, dall’altro, lo “svilimento” della figura del danno morale, normalmente calcolato come mera “frazione” del danno biologico, secondo i noti criteri tabellari. Conclusivamente, si sostiene che le sentenze della Suprema Corte, pur non sempre del tutto condivisibili, meritino di essere “riconsiderate” e “rilette”, evidenziando che la “strada” della risarcibilità del danno non patrimoniale, pur ormai indirizzata verso l’obiettivo di un integrale ristoro dei danni alla persona, debba ancora compiutamente svolgersi.
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