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Vitantonio Gioia
Ruolo
Professore Ordinario
Organizzazione
Università del Salento
Dipartimento
Dipartimento di Storia Società e Studi sull'Uomo
Area Scientifica
Area 13 - Scienze economiche e statistiche
Settore Scientifico Disciplinare
SECS-P/04 - Storia del Pensiero Economico
Settore ERC 1° livello
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Settore ERC 2° livello
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Settore ERC 3° livello
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The aim of the paper is to analyze the work of Werner Sombart starting from his criticism of capitalism and of the bourgeois spirit. In the course of the paper we focus on the so-called conservative turn of Sombart and his gradual distancing from Marxist literature with which he had previously interacted intensively. Our intention is mainly to understand the relationship between the thought of Sombart and some key concepts, such as socialism, liberalism and democracy. As Sombart is essentially a scholar of economics, more than one interesting element can be found in his work in relation to his conception of the ethical state and organic community. We conclude the paper with an attempt to historically contextualize the thought of Sombart who is absolutely a product of his time. In the years when Sombart wrote and worked, the crisis of liberalism and individualism was a fact, discussed in the international scientific community by various scholars of socialist and social-democratic leanings but also by the theorists of liberalism, as well as by authors such as Schmitt and Gentile who explicitly joined Nazi-fascism.
Analisi scientifica dell'opera di Angelo Messedaglia come economista, statistico e parlamentare.
In periodo illuministico i processi di industrializzazione erano stati, non a torto, considerati come l’aspetto essenziale di un movimento progressivo della società che avrebbe liberato l’uomo dal pauperismo, promuovendo gradualmente uno stato di diffuso benessere sociale. L’elemento nevralgico di questo processo era stato l’affermarsi di un modello di individualismo che, ponendo “l’uomo come misura di tutte le cose”, aveva indicato il “perfezionamento umano” come “fine” dello sviluppo economico e delle trasformazioni sociali. Già i primi decenni del XIX secolo cominciarono ad evidenziare i limiti di questa visione illuministica: l’aumento vertiginoso della ricchezza prodotto dalla “industria civile” non aveva portato ad una società più “equa” e l’individualismo si era via via trasformato in un moltiplicatore degli squilibri economici e sociali. A due secoli di distanza si continua a riflettere sia sui limiti di un modello di sviluppo che produce ricchezza, ma non benessere sociale diffuso, sia su un modello di individualismo che sembra lontano dal favorire quei percorsi di “perfezionamento umano”, enfatizzati durante l’Illuminismo. Oggi alle impressionanti “economic disparities between the richest and the poorest people” a livello globale si aggiungono i fenomeni di impoverimento delle cosiddette aree avanzate: effetto di una crisi lunga e dagli esiti incerti . La forza dei “meccanismi oggettivi” dell’attuale modello di sviluppo sembra non lasciare scampo. Il determinismo, radicato nella coscienza individuale secondo meccanismi stimoli/risposta definiti nello spazio della logica atomistica, vincola gli sviluppi della soggettività contemporanea, impedendole di valutare se stessa nella dimensione della socialità. E, tuttavia, solo ripensando le possibilità poietiche della soggettività è possibile prefigurare raccordi plausibili – perché storicamente fondati – tra processi di crescita individuale e sviluppo collettivo.
L’interrogativo cui voglio rispondere è il seguente: perché accade quel che sta accadendo nelle economie e nelle società contemporanee? Perché ci siamo cacciati in questa trappola? Perché le società più ricche della storia dell’umanità non riescono a superare gli scogli di una crisi economica che, al suo apparire, gli economisti avevano giudicato congiunturale e di breve periodo? La risposta a questi interrogativi ci rimbalza dai media in maniera ossessiva: ci sono paesi che in passato hanno sperperato ricchezza, non hanno amministrato bene, hanno speso più di quanto producevano e ora pagano il prezzo di questo. Ovviamente, non si vuole ignorare quel che è accaduto negli anni passati, specialmente in Italia, né sottovalutare il peso degli sprechi, delle occasioni perse o dell’incapacità del nostro ceto politico di governare situazioni complesse, che avrebbero comportato l’adozione di politiche economiche coraggiose e – probabilmente – impopolari. Interventi appropriati avrebbero consentito sia di definire un profilo di rientro dal deficit pubblico accumulato a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo; sia di lavorare ad un contesto atto a incoraggiare investimenti e a creare opportunità di lavoro per le giovani generazioni. Tuttavia, indipendentemente dai ritardi politici accumulati nell’ultimo ventennio dall’Italia, resta il fatto che ci sono paesi il cui debito pubblico è altrettanto rilevante (Inghilterra, Giappone, Belgio, ecc.) e che non sono colpiti dalla crisi nello stesso modo in cui accade all’Italia. Inoltre, è ormai chiaro che il modello di austerità varato dall’UE non solo non risolve i nostri problemi economici, ma li aggrava. Viviamo in una situazione in cui lo schermo ideologico, imposto dalla Germania e dai paesi del Nord Europa, all’UE è così spesso da non consentire di tener conto della realtà e delle esperienze che abbiamo avuto dal 2008. Si pensi, tanto per fare un esempio, ai problemi della nazione che è diventata paradigmatica della attuale crisi: la Grecia. Tutti gli analisti concordano nel fatto che 5 anni fa un intervento di 50 o 60 miliardi di euro avrebbe risolto il problema greco, che è stato determinato sia da fattori endogeni; sia - è bene ricordarlo - da inadeguate valutazioni dell’UE relativamente ai dati contabili forniti dai governi greci. Nel tempo il problema greco si è aggravato al punto che la quantità di ricchezza investita per risolverlo è diventata sempre più grande. Inoltre, la politica di austerità imposta alla Grecia ha impoverito un paese, mal governato per decenni, mettendo in discussione le sue possibilità di ripresa nel medio periodo. D’altra parte non sfugge il fatto che dopo 4 anni di politica di austerità imposta dal FMI, come unica ricetta per uscire dalla crisi, Christine Lagarde - Direttore FMI – abbia ammesso che forse si è esagerato con la politica di rigore e austerità, poiché essa invece di risanare i conti degli stati li ha via via aggravati, provocando seri e duraturi effetti recessivi. Sorge il dubbio, insomma, che qualcosa non funzioni come dovrebbe nelle società materialmente più ricche della storia dell’umanità, più dotate di conoscenze scientifiche, caratterizzate da fenomeni di integrazione internazionali imponenti (a cominciare dall’UE) e da meccanismi di coordinamento delle politiche economiche e finanziarie tali da non avere eguali nella storia.
In questi ultimi decenni la letteratura sui temi delle povertà e sull’analisi dei meccanismi che producono diseguaglianze tra gli individui e tra le nazioni è cresciuta in maniera considerevole e con risultati rilevanti sia sul piano teorico e dell’affinamento dei metodi di analisi, che su quello dell’indagine empirica1. Seguendo tali sviluppi un po’ da lontano, come storico del pensiero economico, sono stato sorpreso dalla presenza in essa di cenni superficiali a momenti dell’analisi economica, a cominciare dalla riflessione del periodo illuministico, in cui questi temi hanno occupato una posizione centrale. Come succede spesso, le “riscoperte” della centralità di alcuni problemi fanno torto alle precedenti trattazioni di essi. Eppure, se si guarda al dibattito illuministico sul rapporto tra crescita economica, sviluppo sociale e perfezionamento umano, ci si rende agevolmente conto del fatto che la riflessione sui temi in questione non fu né univoca, né superficialmente ottimistica (come si continua a sostenere). In questo contesto non mi sembra inutile richiamare brevemente parte della complessa indagine illuministica sui rapporti tra crescita economica e progresso sociale, dal momento che essa riveste ancora grande interesse 1. Per quanto riguarda gli aspetti metodologici e relativi all’affinamento della strumentazione analitica, basti rinviare ad Anand, Sen, 1994 e 1997. Per un quadro generale del dibattito cfr. Fukuda-Parr, Shiva Kumar, 2003; Delbono, Lanzi, 2007; Acocella, 2004. 32 vitantonio gioia sia sul versante dell’analisi della crescita economica e dei meccanismi che la rendono possibile, che su quello dell’aspirazione a un sistema sociale più equo. Sul primo versante, gli illuministi individuano i tratti distintivi di un sistema economico i cui meccanismi di funzionamento hanno determinanti endogene che, in ultima analisi, riposano sulle motivazioni e sul comportamento degli individui. Le loro riflessioni si muovono, in maniera ampia e originale, dall’analisi dei nuovi tratti dell’agire economico a quella dei sistemi motivazionali che strutturano i comportamenti individuali, dalle componenti propriamente economiche a quelle di natura extra- economica. Analisi economica e analisi sociologica si snodano, dunque, lungo itinerari convergenti con lo scopo di definire i processi che, nel contesto di un ordine sociale dotato di originali caratteri costituivi, definiscano a un tempo le possibili evoluzioni del sistema e le trasformazioni degli attori sociali. Sul secondo versante, gli illuministi mettono a punto un concetto di progresso sociale che è caratterizzato soprattutto dal riferimento all’idea del perfezionamento umano, poiché l’incremento della ricchezza materiale è considerato solo una necessaria precondizione dello sviluppo umano ( Jonas, 1975, vol. i, pp. 110 ss.; Koselleck, 2009, pp. 60 ss.; Nutzinger, 1991, pp. 79 ss.). Proprio l’ampia base che costituiva il punto di partenza dei pensatori dell’illuminismo, travalicando i confini specialistici delle singole discipline, consente di aprire interessanti prospettive analitiche anche sul versante di quello che sarà successivamente definito come il “disagio della modernità”: uno stato caratterizzato dalla genesi e diffusione di nuove diseguaglianze in un contesto determinato da continui e diffusi processi di arricchimento. Allora, come ora, l’interrogativo era, dunque, il seguente: se e a quali condizioni crescita economica e sviluppo umano possono conciliarsi.
Abstract This paper intends to re-examine the reflections of Werner Sombart, Vilfredo Pareto and Emile Durkheim, who provide general guide to interpreting some crucial elements of the discussions on Marxism and socialism from 1895 to 1901. From November 1895 to May 1896, Durkheim starts a broad reflection on socialism and Saint-Simon in a course held at the University of Bordeaux, where he begins a comprehensive evaluation of the “history of Socialism”, including also the assessment of thinkers like Fourier, Proudhon, Lassalle and Marx. Sombart in 1896 publishes a collection of eight lectures held in Zurich, highlighting the link between his reflection on socialism and the analysis on “modern capitalism” he develops in Der moderne Kapitalismus. Pareto publishes Sistemi Socialisti in 1901, after a systematic reflection on socialism begun in 1896, which allows him to verify the categories and interpretative models he would adopt in his economic and sociological inquiries. The paper illustrates some aspects of this challenging confrontation, namely: the analysis of the methodology and interpretative power of the socialist theories; the features of “modern socialism” as a “social fact”; and the debates on the relationships between capitalism and socialism.
The historical character in the scientific explanations: the German Historical School of Economics (1843 – 1948) This paper is focusing on the large debate carried on in Germany after 1843, when Roscher published his Grundriβ zu Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach geschichtlicher Methode, in order to consider the historical character of the economic phenomena not only on the practical plane (economic policy), but also on the epistemological plane: “in finished theory” (Roscher). As is well known the debate involved many authors in Germany (Hildebrand, Knies, Schmoller, Schumpeter, Max Weber, Spiethoff, etc) and in other countries (Ingram, Neville Keynes, Messedaglia, Lampertico, Commons, Veblen, Charles Gide, etc.). It ended with the success of the approach of the pure economics, but after about a century the question remains: if the economics is doomed to scientific explications endowed with logical validity, but that “do not have any relevance to an actually existing reality”, or if it is possible to build scientific explanations which are historical in character, in which the data are “taken from real world”, making abstraction “from their historical uniqueness” (Arthur Spiethoff).
It is rather troublesome to speak of a French utopian thought since the category of Utopia or Utopian Thought is too vast and not easily intelligible for a variety of reasons: firstly, because there is the difficulty in marking out a clear distinction, as Marx and Engels tried to do, between utopian thought and other forms of thought, including scientific thought; secondly, because of the important differences existing among the various expressions of what, with an elliptical expression, we mean a utopian thought; thirdly, because some authors who we consider as adhering to the utopian thought, not only do they not consider themselves so, but have waged a harsh battle against concepts of Utopia (just think of Proudhon). Maybe, it would have been easier to adopt the category of heterodox thought, though I have never really liked such a term for several reasons: firstly, because this is even more indeterminate; and because it is generally built per differentiam, with reference to external contents, that is in relation to approaches and analytical procedures of that universe of reasoning which is defined orthodox. The category of heterodoxy reminds me of that concept of idealism which Hegel attributed to Schelling: a night when every cow is black. In the end, I held to be more useful to adopt the category of utopian thought, since in each case the reflection of the authors under consideration is determined by the search for organising the economy and society conceived as a possible alternative to capitalism. Upon the bases of such an approach, these authors, mature a critical attitude towards the current state of things and towards the theories, (economic theories, especially), which proclaim that state of things as the only one possible. Besides, it is interesting to take note, that the critical attitude to political economy emerges rather slowly, after a phase of opening in relation to economics and after a phase of sharing its analytical procedures and its cognitive goals. We will develop these ideas by way of the following four headings: 1. the attraction of classical economics and its utopian dimension; 2. the end of the great illusion; 3. Malthus’ trauma; 4. the criticisms of political economy.
Epistemologia di Angelo Messedaglia.
Questo volume raccoglie gli esiti di un lavoro decennale di studi, presentati e discussi da specialisti spagnoli, francesi e italiani in due successivi incontri scientifici che si sono svolti presso le Università di Zaragoza e di Verona. Dopo l’apertura, con una riflessione di Gian Mario Bravo sul socialismo utopico, l’opera si compone di due parti: una prima che fa perno sul pensiero di Saint-Simon e su tutti quei pensatori che negli stessi anni si occuparono dei cambiamenti sociali, politici ed economici, nel tentativo di rispondere alle sfide che questi ponevano. La seconda parte, invece, si sofferma in particolare sull’opera di Pierre-Joseph Proudhon, ripercorrendone le intuizioni, le contraddizioni, le visioni e mostrandone le influenze su altri pensatori. I diversi capitoli affrontano gli aspetti filosofici, politici, economici e sociali di Saint-Simon e di Proudhon e, sullo sfondo dell’opera di Karl Marx, offrono una lettura ampia e approfondita dei problemi insoluti dell’economia politica classica, ipotizzando soluzioni che, già nel XIX secolo davanti ai primi esiti del sistema capitalistico, rappresentavano una parte importante di quel pensiero critico, del quale ancor oggi percepiamo la straordinaria attualità.
Come ha rilevato Warren J. Samuels: “Ideas on the economic role of government have been a major source and a major part of the history of economic thought” (Samuels 2005, p. 393). Di conseguenza, la letteratura su tale tema è sconfinata. Il problema diventa ancora più serio se si tenta di incrociare la riflessione sul rapporto tra Stato ed economia, con quella – altrettanto ampia – relativa al dibattito sulla genesi e sui caratteri del “moderno capitalismo”. L’analisi del rapporto tra Stato ed economia nella fase che portò all’affermazione del modo di produzione capitalistico sembra non avere alcuna autonomia con riferimento all’analisi generale di tale tema. Esso viene interpretato come un aspetto non problematico della visione generale costruita in base ai canoni tardo-ottocenteschi , che accreditano l’idea della divaricazione tra Stato ed economia come un tratto generale del “moderno capitalismo”. Secondo tale visione, Stato e istituzioni svolgono nella genesi e nello sviluppo del capitalismo un ruolo marginale e, in qualche modo, “accidentale”, nel senso hegeliano del termine: “un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile che può non essere allo stesso modo che è” (Hegel 1967, pp. 7-8). In questo contributo, non intendo riflettere sulla vexata quaestio relativa al ruolo dell’intervento pubblico in economia. Ciò su cui intendo richiamare l’attenzione è la scarsa rilevanza interpretativa di questa contrapposizione, specie con riferimento alla nascita del “moderno capitalismo”. Pur non sottovalutando il ruolo del mercato e la “spontaneità” di molti dei fenomeni, che hanno caratterizzato la fase della prima Rivoluzione Industriale, mi sembra utile porre almeno due questioni: 1. le ragioni per cui Smith e gli altri teorici dell’Illuminismo hanno incentrato il loro modello esplicativo sul ruolo del mercato e degli individui; 2. le ragioni per cui Stato e istituzioni politiche non sono oggetto di una riflessione comparabile con quella attribuita al mercato e ai processi di individualizzazione della società dei loro tempi.
In 1874 Ferrara published “ Il germanismo economico in Italia ” (Economic Germanism in Italy), followed in 1876 by two other articles: “Gli equivoci del vincolismo: Il Congresso di Milano” (Misunderstandings of protectionism) and “L’italianità della scienza economica: Lettera all’On. Sen. Fedele Lampertico” (The Italian Features of Economics: Letter to Senator Fedele Lampertico). These three articles marked the birth of the idea of an Italian historical school of economics and the birth of a distorted debate about the German Historical School (GHS). Harsh debates and ferocious criticisms occurred. Messedaglia, Lampertico, Cossa, Rabbeno and others were considered representatives of this new school of economics; Ferrara, Pantaleoni and Pareto became standard-bearers of a norest struggle against the historicist degeneration of economics. Nobody wondered whether such a school really existed in Italy, or what its features and its purposes were. The existence of the Italian historical school of economics was accepted, and it was accepted that it was characterized by an antitheoretical attitude in the scientific field and by an antiliberal perspective in the political vision. So scientific tradition persisted in the idea of a harsh contrast in Italy between two economic schools: between a theoretical school (Ferrara, Pantaleoni, Pareto) and an antitheoretical school (Messedaglia, Lampertico, Cossa), and between a liberal school and an antiliberal school. Nevertheless, if we try to overcome the impression created by Ferrara’s work and by the radical criticisms of Pantaleoni, Pareto and others, if we do not accept immediately the interpretation they suggest about the evolution of Italian economic thought and if we make a systematic analysis of the works of the Italian economists considered representatives of the historical school or, even, Kathedersozialisten, we can observe a different reality. In particular, we do not fi nd any scientific production proving explicit support for the scientific program of the GHS. Strictly speaking, it is therefore very difficult to talk about the existence of a historical school of economics in Italy. A s we will show, the Italian historical school of economics was a Ferrarian invention caused by political reasons (linked to the organization of the Italian State following political unification), but the uncritical acceptance of Ferrara’s view produced serious interpretative distortions. As a result, there are still no acceptable explanations in the scientific reconstruction of the evolution of economics in Italy after 1870. In particular, we need more thorough inquiries into these aspects: The reasons for the strong influence in Italy of the GHS of economics; • The reasons for the harsh controversies that occurred, linked to such influences; • A rigorous analysis of the limits of Ferrara’s work trying to show the existence of an Italian historical school of economics. A s we will see, the analysis of the ideological barriers built up during the harsh debates of this period explains the difficult reception of the GHS authors not only at the end of nineteenth century but also in the following century. Scientific interest in some representatives of the GHS (above all, Max Weber and Sombart) increased in Italy after World War II (Pisanelli 2015: 166ff.), and in the last decade of the twentieth century, Schmoller and the general experience of the GHS underwent a thorough reconsideration (Gioia 1990; Schiera & Tenbruck 1989).
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