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Elena Papagna
Ruolo
Professore Associato
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI (DISUM)
Area Scientifica
AREA 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Settore Scientifico Disciplinare
M-STO/02 - Storia Moderna
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Il saggio ricostruisce alcune tappe significative della storia privata e pubblica di Antonio Pérez Navarrete, uno spagnolo migrato nel Regno di Napoli ove visse tra la prima e la seconda metà del XVII secolo e si inserì tra le élites del paese grazie alle sue competenze giuridiche e ai servizi resi alla Monarquía, sfruttando il favore accordato da quest’ultima, desiderosa di ridimensionare poteri e prerogative dell’antica nobiltà meridionale, ai togati, il gruppo sociale che costituiva la punta più avanzata del ceto civile. In particolare considera l’attività di scrittore e di mediatore culturale espletata dal giurista di Logroño divenuto poi marchese di Laterza e analizza l’apporto dato alla sua ascesa socio-professionale da opere di diverso genere – opuscoli di propaganda, biografie celebrative, trattati giuridici – composte in castigliano specie agli esordi della sua lunga e fortunata carriera e in seguito stampate ripetutamente dedicandole, con una buona dose di intelligenza politica, ai diversi viceré dispensatori di gratificazioni materiali e simboliche tra i sostenitori del governo spagnolo.
The paper proposes several considerations regarding the effects produced by Spanish rule in the historical province of “Terra di Bari”. The first part reconstructs the new feudal map of the territory, born from the dissolution of the great domains of the fifteenth century and destined to remain stable for a long duration. Furthermore, the provincial baronage and its evolving composition up until the mid-seventeenth century is analyzed. The second part once more proposes the controversial problem of demilitarization wanted by the Catholic monarchy in order to control southern barons. On the basis of a few particular cases, the integration of individuals and families of “Terra di Bari” in the Spanish imperial system is studied through the military service.
Il tema della corte, impostosi negli studi dagli ultimi decenni del Novecento a seguito di un processo di revisione della storiografia tradizionale, è ben lontano dall’aver esaurito le sue potenzialità e l’analisi delle corti del XVIII secolo, diverse rispetto a quelle d’età rinascimentale o barocca, rientra tra i settori d’indagine ancora poco investigati. Muovendo da tali premesse, questo libro vuole offrire un contributo alla storia delle realtà cortigiane e delle identità nobiliari nell’ultima fase dell’antico regime attraverso l’esame della corte napoletana al tempo di Carlo di Borbone. Il sovrano, asceso al trono meridionale, non poteva esimersi dall’organizzare una propria corte e dal curare una politica dell’immagine, utile per affermare e consolidare, tramite manifestazioni di grandiosità e di fasto, il prestigio dinastico e il ruolo istituzionale recentemente acquisito. Diviso in due parti, il volume descrive nella prima la struttura della corte di Carlo, nata dalla fusione del modello spagnolo con quello napoletano di età vicereale, e illustra le competenze e i costi del personale che in essa prestava servizio. Nella seconda parte prende in considerazione gli uomini e le donne che attorniavano il sovrano e la sua sposa e costituivano intorno alla coppia reale una cornice con funzioni non soltanto decorative. Attraverso l’attribuzione delle cariche cortigiane, retribuite o onorarie che fossero, la giovane monarchia mirava ad allargare la base di consenso e a tal fine sceglieva di privilegiare i sudditi meridionali, in deroga ai criteri adottati in Spagna all’istituzione dell’originario seguito di Carlo, volutamente aperto a soggetti di diverse provenienze geo-politiche. Il conferimento dell’ufficio di palazzo consentiva al Borbone di praticare una strategia mediana, che da un lato teneva conto delle aspettative nobiliari suscitate dall’avvento nel paese del bramato re «proprio e nazionale», per riprendere la celebre espressione di Pietro Giannone richiamata nel titolo del libro, dall’altro non accordava eccessivo potere a individui dei quali andava meglio valutato il livello di affidabilità per la corona. Sulla base del servizio prestato a corte da un ristretto gruppo di uomini e donne si delineavano nuove gerarchie, avviando un più vasto progetto della monarchia che, finalizzato a colpire l’autoreferenzialità nobiliare e a garantire al sovrano un maggior controllo dell’ordinamento sociale, sarebbe giunto a più compiuta maturazione in tempi successivi.
Il saggio prende spunto dall’unione di Ferrante Gonzaga, valente militare al servizio di Carlo V e futuro duca di Guastalla, con l’ereditiera napoletana Isabella di Capua, principessa di Molfetta; patrocinate dal cardinale Ercole Gonzaga, le nozze furono celebrate nell’agosto del 1530 segretamente e per procura, lo sposo assente perché impegnato nell’assedio di Firenze. La vicenda induce a riflettere sul contesto politico della penisola italiana tra il terzo e il quarto decennio del Cinquecento, percorsa da irrequietezze religiose e coinvolta nel conflitto tra Asburgo e Valois, nel corso del quale principi ed esponenti delle élites furono chiamati a compiere una scelta di campo. In tale prospettiva vanno pure inquadrate le alleanze matrimoniali che dovevano essere concluse in ambiti che non dessero adito ad ambiguità, inducendo i filoimperiali Gonzaga a legarsi a famiglie della feudalità meridionale di stessa fede politica. Le strategie alla base di questo ed altri matrimoni celebrati nello stesso arco cronologico tra giovani di casa Gonzaga e rampolli del baronaggio meridionale sono poi raffrontate con quelle poste in essere in contesti temporali e politici differenti: in primo luogo negli anni magmatici tra Quattro e Cinquecento, quando le unioni coniugali erano concluse anche in spazi geografici ampi ma entro un preciso ambito socio-politico, quello degli uomini d’arme e dei condottieri, accomunando le sorti di principi di piccoli stati sovrani e di grandi signori feudali; in secondo luogo al volgere della metà del XVI secolo, quando la compagine territoriale degli Asburgo si andava tramutando progressivamente in Monarquía spagnola, animata da nuove logiche di controllo militare e politico della penisola italiana, e nelle complessive strategie familiari dei Gonzaga di Guastalla e di Sabbioneta, integrati nei gruppi di potere prevalsi sotto Filippo II, scemava l’interesse per i matrimoni che si potevano contrarre all’interno del baronaggio meridionale.
Il saggio prende in esame alcuni aspetti legati all’interazione tra uomo e natura nella costruzione del paesaggio rurale di Terra di Bari, dopo aver valutato preliminarmente l’opportunità di adottare come campo d’osservazione la provincia, nella consapevolezza che la fissazione degli spazi entro cui esaminare fenomeni e processi storici costituisca un’operazione tutt’altro che neutra, in grado di pesare sui risultati della ricerca. In tale ambito territoriale mette in evidenza rilevanti fattori identitari e una pluralità di non meno importanti caratteristiche geo-antropiche che sfruttavano come positiva risorsa le diversità delle sub-aree provinciali. In primo luogo viene analizzata la tipologia insediativa che, di antiche origini, si era andata definendo nell’arco di tempo compreso tra la dissoluzione della civiltà imperiale romana e il riassetto successivo alla crisi di metà Trecento e che in età moderna s’era conservata piuttosto stabile, caratterizzata dalla quasi totale assenza di villaggi rurali e dalla concentrazione della popolazione in centri urbani, tra loro scarsamente gerarchizzati e disposti lungo linee ideali grossomodo parallele al mare. È poi presa in considerazione la rete stradale, comprensiva di arterie principali, sviluppate longitudinalmente sul territorio provinciale, e percorsi secondari e rotabili naturali cui erano prevalentemente demandati i collegamenti interni. Impostata già in epoca romana e in seguito riadattata ma mai in maniera adeguata, la viabilità solo tra XVIII e XIX secolo venne migliorata, grazie a piani coerenti di intervento. Per le comunicazioni della provincia non minore importanza assumeva il sistema portuale, ove modesti approdi che sfruttavano l’accesso al mare delle lame erano inframmezzati a porti di maggiori dimensioni, ma esposti ai venti e all’interrimento, mai pienamente efficienti sia che si avvalessero di insenature naturali sia che fossero dotati di malsicuri moli artificiali. Tra Sette e Ottocento il governo borbonico puntò a realizzare miglioramenti degli impianti portuali, ma incertezze nella definizione dei progetti, complicazioni tecniche, lungaggini burocratiche e difficoltà nel reperimento dei fondi ritardarono l’esecuzione dei lavori. Attraverso le testimonianze di viaggiatori e agrimensori sono colte le caratteristiche di un paesaggio vario che andava dagli uliveti della fascia costiera al caratteristico habitat pietroso e brullo dell’altopiano murgiano, passando attraverso pianori intermedi tenuti prevalentemente a bosco, una risorsa fondamentale, regolamentata da norme consuetudinarie e statuti locali, non di rado oggetto di controversie originate dalle contrastanti esigenze di preservare l’incolto o di incentivare la coltivazione della terra. Viene infine descritta la trama composita di manufatti sacri e profani che, finalizzati alla valorizzazione economica, alla difesa e fin anche la sacralizzazione del territorio, si dispiegava negli spazi extraurbani della provincia. L’abbondanza di pietra locale serviva a terrazzare i campi, a erigere muretti divisori, riposi, jazzi e lamioni utilizzati da greggi e pastori, capanne per usi agricoli ed edifici rurali più complessi, quali erano i trulli della Murgia sud-orientale, rispondenti alle esigenze abitative di una popolazione che, diversamente da quel che avveniva altrove, aveva un rapporto stabile con la campagna. In quella stessa sub-area e sull’altopiano murgiano, ove l’armatura urbana era più rada e fragile e perciò incapace di imporre la sua organizzazione al territorio circostante, sorgevano le masserie, unità produttivo-residenziali sovente dotate di apparati difensivi per fronteggiare gli attacchi di predoni di terra e di mare. Le masserie fortificate non erano che una delle componenti di una ben più articolata rete difensiva che si venne definendo a partire dagli inizi del secondo millennio con la costruzione di torri e castelli, dipendenti originariame
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