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Valerio Meattini
Ruolo
Professore Ordinario
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE, PSICOLOGIA, COMUNICAZIONE
Area Scientifica
AREA 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Settore Scientifico Disciplinare
M-FIL/01 - Filosofia Teoretica
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
Concentrando l’attenzione su pagine dei Berliner Manuskripte, scritte intorno al 1830, e cioè in piene trionfo hegeliano, Schopenhauer, ritornando sulla questione del Ding an sich, riconferma che questa non è soltanto la grande questione di Kant, ma è la grande questione della filosofia se vogliamo difendere anche il significato morale della nostra esistenza e l’innegabile (unleugbar) significato morale dell’agire umano. Ma, quel che interessa è l’intera riformulazione della problema perché, da un lato si fa un ultimo tentativo di salvare la Cosa in sé argomentando con Kant, d’altro lato si registra un rinnovato smacco nel cercare di andare oltre la rappresentazione a partire dalla rappresentazione, dando efficacia fuori dalla rappresentazione alla categoria di causalità. L’errore di esposizione in Kant, non sanziona, però, secondo Schopenhauer, l’esclusione della posizione della Cosa in sé. Si passa, dunque, all’esposizione schopenhaueriana dell’argomento tramite la logica della sottrazione: sottraendo le forme universali-soggettive di spazio-tempo-causalità e la forma dell’essere oggetto (che sono a priori) ciò che resta di individuale in ogni rappresentazione proviene da altro ed è la cosa in sé (ciò che conferisce all’apparenza il suo carattere ogni volta individuale). L’insieme di ciò che appare è un composto di a priori sempre determinabile e di un a posteriori che di volta in volta ne costituisce il contenuto, che, dunque, per la sua novità annuncia la cosa in sé. È un’argomentazione che si affianca all’altra che noi abbiamo anche tramite il nostro corpo e la nostra volontà una diretta attestazione della cosa in sé. E vi si affianca per l’impegno che Schopenhauer mette in un’estrema difesa della prova kantiana della cosa in sé che è però destinata a fallire e a lasciare il campo sia allo scetticismo di Enesidemo, sia alla versione fichtiana dell’Intellektuale Anschauung (cui contrappone la Intellektualität der Anschauung), sia alla ragione hegeliana. L’esegesi di questi passi non aiuta soltanto a ricordare che se la volontà è la più immediata manifestazione della cosa in sé non è però tutta e soltanto la cosa in sé, o che si può avere una buona teoria ma difenderla male (che è quanto precisamente viene imputato a Kant), ma mostra come Schopenhauer avesse ben presenti due questioni. La prima: che se vigono soltanto le leggi della ‘rappresentazione’ allora la dimensione morale è un’illusione. La seconda: che una volta stabilito il contenuto a posteriori della rappresentazione (e dunque provata, per sottrazione, la parte che in quella rappresentazione è cosa in sé) non si è ancora stabilito se quel contenuto mi giunga oggettivamente o invece nella maniera più soggettiva, poiché è chiaro che il primo passaggio è la percezione sensoriale (Sinnesempfindung). Schopenhauer non si appella ad una posizione superiore della coscienza trascendentale che giustificherebbe il realismo della coscienza comune (salvaguardandosi così dall’idealismo gnoseologico) o ad una fede nel mondo esterno. Confessa, al contrario, l’asperità del problema: il contenuto oggettivo della realtà mi giunge per via soggettiva. Non c’è reale risposta né a come l’oggettivo (a posteriori) e il soggettivo (a priori) s’incontrino, né a come quell’oggettività venga salvaguardata; e, tuttavia, sia la conoscenza della realtà sia la concezione morale le esigerebbero.
L'articolo valorizza dal punto di vista teoretico la metodica filosofica di A. Schopenhauer. Una prima parte del lavoro considera le circostanze in cui è necessario partire dal soggetto o, alternativamente, dall'oggetto come incipit dell'analisi filosofica. Viene poi presa in considerazione, valorizzandola, l'idea per cui la dimensione metodologica porta con sé quella filosofica; in questa direzione vengono indicati elementi che permettono di evitare riduzionismi e semplificazioni eccessive. Una seconda parte del saggio discute l'idea di ‘rappresentazione’ come relazione originaria soggetto/oggetto, mostrando la possibilità di porre un freno alla risoluzione completa della realtà nella conoscenza (necessità della mediazione), tenendo in considerazione lo scarto per cui, se l’immediatezza dell’oggetto viene assunta nel “principio di coscienza”, ciò che la coscienza pone in quell’immediatezza come fuori di sé non può risolversi nella coscienza stessa.
La distinzione tra conoscere e pensare è in Kant densa di questioni. Si vuol mostrare che nella KrV la conoscenza, anche se è determinata dall’intelletto e dal limite di applicazione delle sue funzioni alla sensibilità, non può dipendere soltanto dall’intelletto e dalla sensibilità. Non ne dipende per il suo concreto prodursi, per il proprio unificarsi, per lo scoprimento di gradi maggiori di realtà in ciò che è già conosciuto, per lo spingersi sempre più avanti del punto in cui l’esperienza è in grado di giungere, poiché ciò avviene “sulla scorta delle idee” (KrV B, 690, 691). Si produce, cioè, in forza di quel pensare che non è un conoscere se non della pura forma della conoscenza stessa (poiché è conoscenza non soltanto la conoscenza di oggetti, “ma anche dei limiti in cui è chiusa la nostra conoscenza di oggetti”). Il principio della sistematicità, ad es., avrà pure un’oggettività soltanto regolativa, ma tuttavia promuove e consolida indefinitamente l’uso empirico della ragione “aprendo nuove vie, sconosciute [c.m.] all’intelletto” (KrV B 708). Questa tensione tra conoscere e pensare possiamo così proporla: il pensare è il motore segreto di quel conoscere che nel mentre ne viene accresciuto e intensificato continua ad escluderlo, e deve escluderlo, da sé, oppure: la datità categoriale in cui l’intelletto si articola stabilisce, con il limite della sua propria applicabilità, il limite della conoscenza, ma non può stabilirne il senso e la produttività concreta senza guardare continuamente a quel pensare che non è ‘conoscere’. All’interno di questa tensione, Kant ha cercato di individuare e sistematizzare uno statuto radicale e originario del pensiero (come intelletto e come ragione) secondo cui la sensibilità è determinata dall’intelletto e questo è ordinato alla massima coerenza con se stesso dalla ragione dal cui principio dell’unità universale dipende (KrV. B 694) e cerca anche di contenere gli esiti dogmatici e le derive scettiche. Si cerca di mostrare che la distinzione (che genera la tensione sopra descritta) tra conoscere e pensare letta in modo troppo rigido da Kant, e scolasticamente ripetuta, dipende da una concezione della scienza non più nostra e si basa su una concezione chiusa del categoriale. Quella distinzione non è più caratterizzante invece se le categorie dell’intelletto, come rispondenze spontanee al suo essere stimolato da questioni di cui gli preme la risposta, sono strettamente connesse alle strategie della ragione, da Kant stesso proposte, nell’ambito di quella capacità di pensare che ci qualifica come umani. Infatti, proprio l’analisi della conoscenza umana che indusse Kant a distinguere tra intelletto e ragione, tra conoscere e pensare, per evitare il dogmatismo e lo scetticismo, se rimeditata sciolta dai vincoli “naturalistici” del categoriale e alla luce delle mutate (e quanto mutate) epistemologie odierne può produrre una concezione del “pensare” che non è oltre il conoscere, ma che del conoscere è al contempo elemento dinamico e stabilizzatore.
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