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Michele Donno
Ruolo
Ricercatore
Organizzazione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Dipartimento
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
Area Scientifica
AREA 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Settore Scientifico Disciplinare
M-STO/04 - Storia Contemporanea
Settore ERC 1° livello
Non Disponibile
Settore ERC 2° livello
Non Disponibile
Settore ERC 3° livello
Non Disponibile
La vicenda dei Socialisti democratici italiani, sin dalla costituzione in partito nel gennaio 1947, è stata a lungo trascurata da una storiografia peraltro assai fluente nell’analisi del sistema dei partiti politici italiani nel dopoguerra. Su questa damnatio memoriae ha pesato un insieme di pregiudizi ideologici, luoghi comuni storiografici, strumentale propaganda politica, accomunati in un giudizio liquidatorio, che attribuiva al partito di Saragat la responsabilità di aver favorito la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni dell’aprile 1948 e, da qui, la pluridecennale egemonia democristiana e conservatrice. Secondo questa vulgata, il PSLI (poi PSDI), sostenendo la “scelta di campo occidentale” dell’Italia e collaborando al governo con De Gasperi, avrebbe operato un vero e proprio “tradimento” delle istanze dei ceti operai e popolari, con un asservimento alle politiche democristiane e, sul piano internazionale, statunitensi. Analoga valutazione superficiale e censoria ha riguardato le vicende del PSDI negli anni Cinquanta e Sessanta, dall’incontro di Pralognan tra Saragat e Nenni sino alla partecipazione ai governi di centro-sinistra guidati da Moro. Questo volume, seguendo il percorso iniziato con Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952) (Rubbettino, 2009), approfondisce l’esame sulle origini del centro-sinistra italiano, in una vicenda politica che cominciò a delinearsi dalla seconda metà degli anni Cinquanta, avendo le sue premesse appunto nella scissione socialista democratica del 1947. Le figure e l’azione politica di Saragat, Tremelloni e anche di Preti – gli esponenti più attivi e maggiormente impegnati nell’azione governativa del PSDI, promotori, nel 1962, con l’ingresso del PSI nella maggioranza di governo, di una seconda e decisiva svolta nella politica italiana, dopo quella di palazzo Barberini – vengono riproposte in una più equilibrata attenzione. L’impegno di Saragat, Tremelloni e dei loro colleghi di partito fu volto alla riunificazione del socialismo italiano, con la costruzione di una grande forza socialista democratica, sul modello delle socialdemocrazie europee, che enucleasse il PSI di Nenni dall’inconcludente frontismo con il PCI, facendolo approdare alle rive della cultura occidentale e socialista-liberale, con l’assunzione di responsabilità di governo assieme alla DC. Un impegno di lungo periodo, durato un quindicennio, con l’obiettivo – avviata la Ricostruzione e superata la fase del “centrismo degasperiano” – di condurre il sistema politico italiano verso una nuova e duratura configurazione, con la partecipazione alla gestione della cosa pubblica di quelle forze riformiste, come il PSI, espressione più diretta delle classi lavoratrici messe a dura prova dagli scompensi sociali generati dal “boom economico” e dalla crisi finanziaria internazionale. È la storia, quindi, del successivo formarsi, agli inizi degli anni Sessanta, dell’esperienza politica che portò con Fanfani e Moro ai primi governi di centro-sinistra “organico”, seguiti dall’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica (1964) e dalla riunificazione socialista. Così, nel biennio 1962-’63, come in quello 1947-‘48, il sistema politico italiano segnò una svolta positiva – verso il consolidamento di libere istituzioni democratiche e di un’economia di mercato, in direzione europeista e atlantista – nella quale i socialisti democratici furono decisivi protagonisti; l’“autonomismo” socialista, affermato infine da Nenni – con il sostegno alla formula del centro-sinistra e alla riunificazione dei socialisti italiani nel 1966 –, era nato e cresciuto da due lustri in casa socialista democratica e il PSI finalmente lo faceva proprio, rompendo il legame di ferro con i comunisti e rendendosi disponibile al difficile governo di una società capitalistica avanzata.
Nell’immediato dopoguerra, con la nascita della Repubblica, l’azione governativa rivolta al Mezzogiorno d’Italia, secondo il programma d’azione dei socialisti democratici del PSLI, guidato da Giuseppe Saragat, si sarebbe dovuta concretizzare in una diversa impostazione del problema, tendente alla trasformazione dell’economia meridionale attraverso un’azione intesa a portare su un piano concreto il passaggio della terra ai contadini, attraverso il credito cooperativo e un programma industriale per il settentrione, destinato a favorire la trasformazione agraria del Mezzogiorno. Bisognava, cioè, incentivare la creazione delle condizioni “ambientali” favorevoli all’insediamento di nuove e “sane” attività produttive, agricole e industriali; la costruzione di ferrovie, strade comunali, porti, corsi d’acqua, bacini montani e altre opere finalizzate all’utilizzazione delle acque per la produzione di energia, per l’irrigazione e per l’industria; il sostegno a un’evoluzione tecnologica del settore agricolo, attraverso la modernizzazione degli impianti esistenti e la creazione di nuove attività industriali connesse con l’agricoltura o con le fonti di energia disponibili. Secondo il PSLI, era infondato il timore che questa strategia potesse interferire in modo antieconomico con le industrie del Nord; vi erano, anzi, possibilità di creare condizioni industriali di reciproco vantaggio. Gli investimenti in questo settore potevano rivelarsi notevolmente produttivi e permettere di assorbire masse notevoli di operai. La questione del Mezzogiorno, intesa nel suo aspetto sociale- tecnico-produttivo, anche in funzione del risanamento delle aree economicamente depresse, rappresentava, quindi, uno dei punti essenziali per la conquista della democrazia in Italia. L’attuazione di piani regionali per l’intero Mezzogiorno costituivano il “primo strumento indispensabile” per un’azione concreta a favore delle aree meridionali. E gli aiuti del piano Marshall rappresentarono una prima risposta. Soprattutto il Mezzogiorno d’Italia abbisognava di un’attenta analisi delle sue potenzialità e un oculato investimento capitalistico in agricoltura. Premessa di ciò era la bonifica idraulica dei terreni e tutta una vasta serie di studi che una Commissione di tecnici italo-americana avrebbe compiuto. Essa era l’embrione di un auspicato Organo centrale di pianificazione, che avrebbe dovuto avere una visione unitaria del problema meridionale e nazionale. Ripresa dell’attività industriale, finanziamenti a una vasta azione di lavori pubblici, creazione della Cassa per il Mezzogiorno, trovarono spinta essenziale dall’aiuto americano. Sul problema del Mezzogiorno, secondo il socialdemocratico Roberto Tremelloni, presidente del CIR-ERP, vi era fra i partiti, gli economisti e i tecnici un’ampia concordanza di idee sui criteri cui ispirare l’azione di governo. Gli ostacoli e le “dissonanze”, tuttavia, cominciavano a manifestarsi nel momento in cui si passava alla “fase esecutiva”, cioè, a quella fase in cui bisognava concretamente suddividere mezzi e risorse fra i vari ministeri per il finanziamento delle singole opere. I socialisti democratici sottolineavano, infatti, la persistente mancanza di un quadro organico di iniziative che sarebbe potuto scaturire soltanto dalla redazione di piani regionali e nazionali, “strumenti indispensabili” a favore delle aree meridionali.
Una tappa fondamentale nel processo di formazione politica e culturale di Giuseppe Saragat fu l’esperienza di ambasciatore italiano in Francia, dall’aprile 1945 al marzo 1946. Dopo aver trascorso in esilio oltre un decennio, fra Parigi e Saint Gaudens, nel corso di quell’anno, Saragat non solo riprese i contatti con i socialisti francesi e con Léon Blum ma, soprattutto, incontrò i rappresentanti delle principali potenze mondiali, con i quali dibatté delle spinose questioni relative al trattato di pace italiano. In questa impegnativa attività, Saragat prese diretta conoscenza delle grandi questioni internazionali, in cui l’Italia era parte modesta e che ormai venivano definendosi in una dura contrapposizione fra i due Blocchi. E nonostante le buone intenzioni che i governanti francesi gli manifestarono ripetutamente, Saragat presto raggiunse la consapevolezza che le questioni fra Italia e Francia non sarebbero certamente state risolte bilateralmente ma avrebbero fatto parte di un ben più ampio tavolo di trattative, su scala planetaria. Questa attività diplomatica, inoltre, fu determinante per la successiva decisione di dare vita, con la scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947, ad un nuovo soggetto politico nell’ambito della sinistra italiana. Gli incontri con l’ambasciatore sovietico Aleksander Bogomolov e le dinamiche della nascente guerra fredda consolidarono in Saragat la convinzione che il movimento socialista avrebbe potuto avere, a livello nazionale e mondiale, un ruolo di mediazione rispetto alla contrapposizione fra le due grandi potenze, con la creazione di una Terza forza europea socialdemocratica e indipendente; allo stesso tempo, l’ambasciatore comprese come l’antica avversione del comunismo internazionale verso le socialdemocrazie europee, messa da parte nell’offensiva al nazifascismo, avrebbe nuovamente preso vigore con la fine della guerra. Ogni tentativo, da parte socialista, di fusione con il Partito comunista italiano, quindi, doveva essere fortemente osteggiato; e proprio per evitare il pericolo fusionista, dopo appena un anno di attività diplomatica, Saragat decise di rientrare in Italia dove avrebbe ripreso la sua azione politica per la difesa dell’autonomia socialista, in vista delle elezioni del giugno 1946.
Gli anni Ottanta, considerati il decennio della lunga transizione italiana, non hanno ancora ricevuto adeguato approfondimento storiografico. Su questo fatto hanno molto pesato giudizi condizionati dalle appartenenze politiche, rivolti spesso a considerare questo periodo come la fase di incubazione della crisi italiana, che avrebbe portato al crollo giudiziario del tradizionale sistema dei partiti. Si è voluto, quindi, evidenziare soprattutto il superamento di questo decennio, non approfondendone l’insieme degli aspetti, che sono al contempo di crisi e di affiorante modernità. Con la caduta del Muro, la riluttanza ad un aggiornamento della cultura politica da parte della sinistra comunista ha pesato sul rinnovamento della sinistra italiana nel suo complesso, e ciò anche in ragione del fatto che la stagione giudiziaria apertasi nel 1992 ha impedito il confronto critico con le proposte che si erano fatte avanti nel decennio precedente, considerandole espressione, quando non veri e propri motori, della generale degenerazione del sistema politico italiano. Gli anni Ottanta, sia come esperienze di governo che come fase di elaborazione di nuove culture politiche, hanno subito una sorta di esilio, quando non damnatio memoriae, storiografici. Solo da qualche anno, con l’evidente affiorare della crisi culturale nella sinistra italiana – tanto a lungo mascherata o negata – gli anni Ottanta hanno riacquistato dignità storiografica, offrendo alla ricerca numerosi ed assai interessanti spunti di approfondimento. Uno fra i tanti, e fra i più interessanti, appare l’elaborazione culturale e politica nel Partito socialista italiano, che si era già avviata all’indomani del congresso del luglio 1976, con l’elezione di Bettino Craxi alla segreteria del partito. Tale elaborazione, che può essere ben seguita ed analizzata attraverso lo studio delle riviste del partito, appare di maggiore interesse allorquando esce dalla dimensione del dibattito e cerca di farsi realizzazione politica concreta; ci si riferisce al quadriennio del governo Craxi in cui maturarono proposte e soluzioni politiche, sia nell’ambito interno che in quello internazionale, di grande interesse.
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